Studiare di notte

Quella sera ero l’unico sveglio in casa. I miei dormivano, così come i miei due fratelli. Un quarto fratello viveva già altrove. Ero seduto al tavolo tondo del salone, studiavo. Mi era sempre piaciuto studiare la sera tardi o anche di notte, insomma quando tutti dormivano e non avevo fastidi e possibilità di distrazione.
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Devo fare una precisazione. Oggi bisogna immaginare una televisione che dopo una certa ora non offriva più nulla, bisogna immaginare l’assenza di internet, di computer e smartphone. Bisogna calarsi nell’atmosfera del 1980. La notte era perciò davvero uno spazio libero da tentazioni. Certo c’era la radio, la musica, gli amici. Per uno come me che viveva e vive di relazioni, un minimo di consapevolezza mi spingeva a isolarmi, per poter studiare con qualche risultato. Ero obbligato a stare in silenzio e quella autocostrizione mi garantiva la concentrazione di cui avevo bisogno.

Un gran botto, secco. Una fiammata. Le finestre alle mie spalle sono rosse. Il fuoco. Mi alzo di scatto e mi allontano. Non so che fare. Per fortuna le finestre sono chiuse e i vetri non si sono rotti, le fiamme non sono entrate in casa. Le tapparelle di legno però bruciano. Corro a svegliare mio padre. Mi guarda dal letto con il viso incredulo, poi si alza e corre in salotto, mia madre dietro. Osserva la finestra e mi ordina, secco, “stacca le luci”. Non dice spegni, dice stacca, per cui non capisco (capirò dopo). Senza capire cosa faccio stacco la presa multipla dello stereo che è lì poco distante. Lui si precipita in giardino, lo seguo correndo.

Una bottiglia molotov ha colpito finestra e portafinestra, le tapparelle hanno protetto i vetri e ora bruciano. Fumo denso, brucia il flatting che abbiamo steso con gran fatica qualche mese prima. Una seconda bottiglia ha centrato una piccola catasta di legna a ridosso del muro di cinta che ci separa dal giardino della scuola adiacente, su via Romagnoli, ad un passo dal bar lo Zio D’America, il cuore nero di un quartiere nero. Noi, piccola isoletta democratica, due genitori rappresentanti scolastici della lista “Genitori democratici”, figli impegnati, a vario titolo. Bersaglio fin troppo facile, adatto a menti vigliacche.
Mio padre ha fatto la guerra, non si scompone più di tanto, o forse reagisce in automatico. Mi urla di non espormi, corre a prendere la pompa dell’acqua e in breve tempo spegniamo i due fuochi. E’ stato tutto molto veloce; uno dei fratelli si è svegliato, l’altro non si è reso conto di nulla. Mio padre rientra in casa velocemente e spegne le luci, ora capisco, aveva paura che ci sparassero. Siamo al buio, riprendiamo fiato.

Una domanda mi pulsa in testa, violenta. E sono certo pulsi in testa anche a mia madre, glielo leggo negli occhi. Cosa sarebbe successo se non fossi rimasto sveglio quella sera? Nessuno aveva sentito le bottiglie rompersi, tranne me, che ero a un metro. Il fuoco avrebbe avuto il tempo di scivolare in casa, attraverso il celetto di legno delle tapparelle? In quel caso avrebbe attaccato le tende e il fumo avrebbe invaso le stanze. Forse questo ci avrebbe svegliato, ma correndo in salotto ci saremmo trovati di fronte uno spettacolo ben diverso.
Ma per fortuna ero sveglio, a studiare. E neanche per il giorno dopo, perché quel giorno appena iniziato era festa nazionale e le scuole sarebbero state chiuse. Le bottiglie erano volate esattamente alla mezzanotte tra il 24 e il 25 Aprile. Qualcuno aveva deciso di celebrare quella sconfitta così.


Marco
Un mio ricordo del 25 aprile 1980
(nella foto, le sbarre che mettemmo dopo)

Sincronicità

Domenica 8 aprile 2018, ore 17.40. Esco a buttare la spazzatura, mi accompagna JGO, quattordici anni. Abbiamo tante cose da buttare e ci mettiamo un pò. Qualcosa luccica sulla strada, accanto al cassonetto della carta. Mi chino a guardare, è una moneta. Sono 200 lire. Le raccolgo stupito: “ma guarda, sono 200 lire…lire! Le hai viste mai?”

JGO le osserva con attenzione e commenta – “e sono del 1978, 40 anni fa, esatti”. In quel momento passa una Renault 4 rossa.

Rimango un attimo in silenzio, ho i brividi, la osservo andare via. Mi guarda, capisce che questa cosa mi ha colpito e commenta: “era strapiena di legna, dentro e anche sopra, hai visto?”
Ci incamminiamo verso casa. Rinuncio a commentare questo secondo evento. Non posso, ci sarebbe troppo da spiegare, contestualizzare. E dobbiamo ripassare latino.

Mi chiedo quante volte capitino questi momenti. Quante volte sarà capitato a mio padre o a mia madre. Coincidenze che hanno senso solo per te, cariche di significati che fuori dal vissuto della tua generazione e forse delle precedenti non hanno nessuna evidenza e senso. E sarà così anche per lui, ne sono certo, nel suo quotidiano; associazioni di piccoli segni che farebbe molta fatica a farmi capire.

Qualche giorno fa però è andato al cinema con un amico ed è tornato con una monetina, un “dime” americano, del 1990. Mi conosce, e forse è un po’ come me: “guarda Marco, era per terra sul pavimento del Lux, strano no? Andiamo a vedere un film di Spielberg e trovo una moneta americana!”.

Neve

Racconto pubblicato il 12 Marzo 2024 sulla Rivista di Racconti Fantascientifici “Il Mulo”, QUI

La neve fioccava fitta e il confine tra la strada e i campi non si distingueva più. Antonio Gavoi proseguì senza rallentare cercando di tenersi al centro della carreggiata. Aveva cambiato gli pneumatici, montando quelli invernali, e questo gli dava sicurezza. Guardò l’orologio del cruscotto e valutò di avere ancora un paio d’ore di luce prima del tramonto. Decise di fermarsi a fumare una sigaretta e fare il punto. Accostò a destra, si infilò il cappello e, dopo aver spento il tergicristallo e attivato le quattro frecce, uscì dall’auto.
Raddrizzò le spalle e fece un mezzo giro su sé stesso. Un mare bianco, a perdita d’occhio. Le colline che delimitavano la valle, ancor più bianche, gli sembrarono onde maestose. Il cielo come ovatta sospesa, e ovunque silenzio.
Inspirò con intensità, e sentì che l’ossigeno rigenerava angoli dei suoi polmoni che non sospettava di avere. Pulendo via la neve dalla bocca, si accese una sigaretta e aspirò forte, anche stavolta. Un leggero capogiro. Si sfilò gli occhiali e li ripose nel taschino.

Numero 2 della rivista, Marzo 2024

Due ore di luce, troppo poche per arrivare a destinazione. Calcolò che si sarebbe trovato al buio in un tratto lontano da centri abitati, stazioni di rifornimento, autogrill. Sospirò, consultò la carta e decise di fermarsi al rifugio Bastiani, a circa un’ora e mezza di strada. Non gli piaceva l’idea di incontrare qualcuno, ma sentiva di non avere alternative. Guardò l’auto e pensò che sotto la neve, era bianca anche lei. Si immaginò come visto dall’alto. Un’auto bianca, circondata da un oceano bianco, un piccolo puntino appena distinguibile. Provò un’improvvisa sensazione di disagio, quasi paura. Risalì in macchina e si sentì subito meglio. La neve cadeva ancora più fitta, ma i tergicristalli facevano il loro dovere e i fendinebbia illuminavano la strada a sufficienza. Accese la radio, ma non riuscì a captare alcun segnale. Inserì un cd di musica classica e cercò di non pensare a nulla.

Erano due anni che attraversava un mondo di neve, e non dipendeva dalla latitudine. Aveva chiesto una destinazione al sud e l’aveva ottenuta, ma aveva trovato la neve anche lì, in piena estate. Nei primi tempi si fermava a parlare con i casellanti e i benzinai, chiedeva spiegazioni, ma la reazione era sempre quella: uno sguardo obliquo, di chi si sente preso in giro e non sa se arrabbiarsi o prenderla a ridere. Gli era sempre andata bene: un commesso viaggiatore stressato dai troppi chilometri, uno che ha perso la ragione, ma non è pericoloso, una pacca sulla spalla e via. Dopo circa sei mesi si era abituato, almeno esteriormente, e aveva imparato a tenersi il suo segreto per sé.
Dopo un’ora di marcia il rifugio si delineò all’orizzonte. Una costruzione bassa e lunga in muratura e legno, poco distante dalla strada. Su un lato erano distinguibili una manciata di alberi, sull’altro una catasta di legna. L’edificio poggiava su un crinale, per cui l’ingresso principale era a piano terra, mentre sul retro si affacciava su un piccolo stagno. Rallentò e individuò con difficoltà il parcheggio, dove la neve era stata accumulata grossolanamente ai lati dell’ingresso, rendendolo quasi impraticabile. Scese dall’auto per sicurezza, il parcheggio era accessibile, anche se con difficoltà. Una volta all’interno, spense il motore.

Le luci esterne del rifugio erano spente. Salì sul portico e bussò più volte, senza avere risposta. Si spostò allora su un lato e constatò che tutte le finestre erano chiuse, vetri e scuri, tranne un piccolo oblò attraverso il quale sbirciò all’interno. In un angolo scorse una televisione accesa, e di fronte a essa, un ragazzo, seduto in poltrona, con le cuffie. Batté più volte alla parete esterna, finché il ragazzo percepì qualcosa e si voltò, senza alzarsi.
Mezz’ora dopo era sotto la doccia, in camera.

Il rifugio era vuoto, come gli aveva spiegato il giovane:
– Può scegliere la stanza che desidera, sono tutte libere. In questo periodo dell’anno vanno tutti al mare, certo non quassù –. Poi, come se rispondesse a sé stesso, – Ma non chiudiamo, siamo tenuti a restare aperti, proprio per legge, sa?
L’atteggiamento del ragazzo lo aveva fatto sentire bene; nessuna domanda, perché è vestito così, da dove viene, dove è diretto. Non si era neanche presentato, ma il comportamento nel complesso era stato cortese e rispettoso. Erano due anni che evitava il più possibile i contatti umani, che sentiva di non saper gestire, e più li evitava, più gli sembrava difficile affrontarli.
La questione della neve aveva naturalmente complicato tutto. Organizzare la sua vita in quelle condizioni era sfibrante, ma non poterne parlare con nessuno era pura sofferenza. In pieno inverno aveva chiesto alla ditta delle destinazioni nelle zone più innevate e questo l’aveva fatto sentire meglio. Ma poi giungevano le altre stagioni, e la sensazione di solitudine si faceva insopportabile. Quel ragazzo non si era mostrato interessato a lui, solo un veloce sguardo ai suoi pantaloni di velluto a coste, al cappello di lana, al giaccone, poi un sorriso.
Mentre saliva le scale, Antonio Gavoi interpretò quel sorriso come un tacito assenso, e si sentì, dopo tanto tempo, capito e accettato per quello che era. Ci ripensò sotto la doccia, o meglio non ci pensò in termini razionali, ma si crogiolò in quella sensazione, come se ogni goccia d’acqua portasse via le molecole di sospetto e diffidenza che lo avevano rivestito negli ultimi due anni. Sì, lo sentiva, doveva essere così.
Poi chiuse l’acqua, si avvolse un grande asciugamano intorno alla vita, accese una sigaretta, inalò, aprì la finestra e sbuffò il fumo fuori. La neve non c’era più. Fin dove poteva guardare, le colline all’orizzonte, lo stagno, gli alberi, le rocce, il parcheggio, la sua auto, tutto era libero da quel fardello. Chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte, il paesaggio rimase immutato. Spense la sigaretta caduta a terra e ne accese un’altra. Infilò gli occhiali. Era tutto marrone, con qualche spruzzata di verde. Si sedette sul bordo del letto, sentì salir su le lacrime, poi si addormentò e fece dei bellissimi sogni.

Numero 1 della rivista, Marzo 2023

L’indomani mattina scese a fare colazione. Non era certo fosse prevista, non l’aveva chiesto, fu contento di trovare un tavolo apparecchiato. Poche cose, una tazza, un piattino, marmellata, burro e pane. Fu sorpreso di vedere altri due uomini a un tavolo in fondo alla sala, tuta grigio azzurra da lavoro. I due leggevano il giornale e sorseggiavano qualcosa di caldo, in silenzio. Il ragazzo si affacciò e sorrise, poi rientrò in cucina. Poco dopo lo raggiunse, portando due bricchi metallici di caffè e latte.
Antonio Gavoi ringraziò con un cenno. Il ragazzo rimase accanto al tavolo. Gavoi lo guardò e si fece coraggio:
– Lei… lei lo sa, giusto?
– Sì… l’ho intuito.
– Oggi? E come?
– L’ho capito ieri, non so neanche io come.
Poi, dopo una pausa, il ragazzo aggiunse – Cosa vede? A giudicare da com’era vestito ieri sera, direi ghiaccio, neve.
– Neve.
– Neve, ecco.
– Sono due anni. E lei?
– Sabbia, anche oggi, se è per questo. Ovunque. Ma stamattina nello stagno è tornata l’acqua, ne sono felice.
Gavoi si voltò verso la veranda, attraverso la porta scorse l’acqua scintillare, annuì. Sulla riva un paio di anatre stazionavano tranquille, con le zampe nascoste sotto l’addome, una delle due si nettava le penne, con metodo.
– Vede quelle due anatre sulla riva di destra?
Il ragazzo si affacciò sulla veranda, osservò a lungo lo stagno, poi abbracciò con lo sguardo l’intera valle.
– No – sorrise – Ma all’orizzonte c’è del verde, poco ma c’è. E anche l’aria sa di qualcosa. E lei ora, cosa farà? A parte sostituire gli pneumatici, intendo.
– Sono in viaggio, ho una persona che mi aspetta a circa 250 chilometri da qui. Non lo sa ancora, l’ho deciso stamattina.
– C’è quindi il rischio che non la trovi.
– Naturalmente, ma ho deciso di provare. E comunque la città è di strada – mentì, imburrando una fetta di pane.
– Certo, immagino. Lei comunque mi ricorda una persona che incontrai una decina di anni fa, quando ancora non gestivo il rifugio. Era… come noi, se posso esprimermi così. Fino ad allora pensavo di essere l’unico… ora so che siamo almeno in tre.
Antonio Gavoi smise di mangiare e lo guardò.
– Sassi, ciottoli, muretti a secco, pietraie. Non l’ho più rivisto. Era con la moglie, lei viveva una realtà diversa, ma non troppo. Terra e sassi, nessuna pianta. Dovrei dire quattro, in effetti.
Gavoi osservò il tavolo, immobile. Poi si alzò, spazzando via col tovagliolo alcune briciole dai pantaloni. I due operai erano usciti a fumare sulla veranda. Uno era seduto su una panchina di legno, l’altro in piedi.
– Io la ringrazio, davvero. Salgo a recuperare le mie cose e proseguo; per cortesia metta una telefonata in conto, la sto per fare.
Il ragazzo annuì. Antonio Gavoi raggiunse la sua camera, chiuse la valigia, prese il telefono e compose un numero, dopo una piccola esitazione. Dopo sei squilli rispose una voce di donna. Lui le parlò e ascoltò, il volto tirato, poi disteso, infine sorridente.
– No, no, sono io che chiedo scusa a te…. ma ti racconto meglio a voce, te lo prometto. Tre ore credo, non c’è traffico e… ma figurati, quello che vuoi, non importa, va bene tutto. Davvero, spero di non disturbare… posso portare qualcosa? D’accordo… sulla strada c’è… ma certo che ti riconoscerò, certo che mi riconoscerai.

Antonio Gavoi attaccò, si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Sulla riva dello stagno le anatre erano aumentate di numero e gorgogliavano al sole, due piccoli aironi bianchi perlustravano il fondale, infilando la testa sott’acqua, alternandosi. Poi alzò lo sguardo. Le colline erano spruzzate di bianco. Senti il cuore perdere un colpo, cercò gli occhiali nel taschino della giacca, li infilò e guardò meglio, e riguardò. Erano margherite, a migliaia. Si appoggiò per un lungo attimo alla parete, poi scese al parcheggio, le chiavi dell’auto in una mano, la valigia nell’altra.

Racconto pubblicato il 12 Marzo 2024 sulla Rivista di Racconti Fantascientifici “Il Mulo” —–> QUI

Il numero 0 de Il Mulo, Giugno 2022

Olet kaikki

Il destino di alcune canzoni, il loro percorso, mi ha sempre affascinato. Come un brano possa essere ignorato nel Paese d’origine, e avere invece successo in altri Paesi, in altre versioni. Gli esempi sono moltissimi.

Umberto Bindi scrive Il mio mondo insieme a Gino Paoli, nel 1963. La canzone è bellissima, ma viene pressoché ignorata dal pubblico italiano.

Il brano viene notato però dal produttore discografico George Martin, il “quinto Beatle”, che ne intuisce le potenzialità. Martin affida la traduzione e l’adattamento in inglese a Carl Sigman e la propone a Cilla Black, che incide You’re my world nel 1964, negli studi di Abbey Road.

La versione di Cilla Black è bellissima, travolgente e il successo è immediato. Cilla Black canterà questa canzone per tutta la vita.

You’re my world sarà poi interpretata da Dionne Warwick, Tom Jones, Daryl Braithwaite, Guys’n’Doll e Helen Reddy, raggiungendo il primo posto nelle classifiche dei singoli in Australia, Belgio, Messico, Olanda, Sud Africa e Regno Unito. Nel 1964 il francese Richard Anthony porterà il pezzo al primo posto in Francia (Ce monde) e in Spagna (Mi mundo), e sarà l’unico cantante non italiano a inciderla nella sua lingua originale (Il mio mondo, 1964).

E infine Il mio mondo arriva in Finlandia, diventando Olet Kaikki (Sei tutto), interpretata e portata al successo da Topi Sorsakoski.

Col tempo Olet kaikki diventa un brano popolare e amato in Finlandia, ne vengono realizzate innumerevoli versioni e ancora oggi viene interpretato da molti artisti finlandesi, professionisti e amatoriali.

Comma 44

All’inizio l’aspetto più controverso e dirompente di tutta questa storia non fu giudicato tale, e questo per molti mesi, quasi un anno. O meglio, in quel momento non solo non fu giudicato né controverso né dirompente; di fatto passò totalmente inosservato, un piccolo comma sepolto fra le pieghe di un evento epocale.

Ma andiamo per ordine. Di modificare il Concordato fra Stato e Chiesa se ne parlava da quasi un centinaio d’anni, e quando la commissione bilaterale composta da venticinque rappresentanti del Vaticano e altrettanti rappresentanti della Repubblica Italiana si riunì per l’ultima volta e licenziò il provvedimento, a tutti premeva soltanto apporre la firma in fondo a quel benedetto verbale, andarsene a casa e diventare celebri. Quel pomeriggio una quarantina di mani destre e una decina di mani mancine tremarono, sudarono, infine firmarono, passandosi con apparente distacco una penna prestigiosa quanto scivolosa.

Esenzioni fiscali per le scuole confessionali, religione cattolica obbligatoria nella scuola pubblica, pensioni d’oro per i prelati, concessione di spiagge private per alcuni ordini ecclesiastici, amnistia per svariati pedo-reati, aumento stipendi dei cappellani militari, extraterritorialità di chiese e conventi, spazi garantiti in radio e televisione. Gli argomenti erano talmente tanti e così gravidi di effetti concreti e misurabili che nessuno diede importanza ad un aspetto apparentemente secondario legato alla novità più importante, la norma che aveva il compito di ricoprire di una patina di democraticità e innovazione quella che in realtà si configurava come una immensa regalia al Vaticano, l’ennesima.

L’articolo 66 allargava le maglie della libertà religiosa, permettendo l’edificazione di chiese e luoghi di culto anche all’interno di condomini e case private, mentre il comma 44 lasciava piena libertà di espressione alle stesse. Una ben orchestrata campagna di stampa presentò l’articolo 66 come una dimostrazione di modernità, la definitiva conferma del superamento dello status privilegiato della Chiesa Cattolica, omettendo i dettagli sulle nuove facilitazioni fiscali, una per tutte il meccanismo blindato del 20 x 1000, dal quale il nuovo Concordato escludeva ogni altra confessione religiosa.

Per alcuni mesi l’edificazione di nuove chiese, piccole e grandi, non sembrò un fenomeno di rilievo, e in effetti molti analisti osservarono quello che fu chiamato “effetto saturazione”. L’offerta religiosa era già ricca e i credenti, sempre meno numerosi, non sembravano aver bisogno di nuovi stimoli, accontentandosi della già vasta offerta sul mercato. L’attenzione di sociologi e teologi si affievolì e così quella della stampa.

Un giorno però i cittadini di Porta di Roma si svegliarono di soprassalto. Alle 5.00 del mattino una sirena squarciò il silenzio che avvolgeva il quartiere. Dalla grande chiesa dei Mormoni un suono agghiacciante raggiunse ogni singola casa, attraversò tapparelle e vetri, irrompendo nei padiglioni auricolari di migliaia di persone. Il fenomeno si ripeté alle 12.00, poi alle 18.00 e infine alle 22.00. Non fu necessario che qualche giorno per comprendere che lo specifico aspetto di quello che potremmo definire la competizione sonora tra diversi culti era passato inosservato all’interno di un provvedimento legislativo immodificabile. Ben presto altri luoghi di culto si attrezzarono e risposero all’offensiva mormone. Molte delle chiese cattoliche del quadrante Nord-Est di Roma raddoppiarono lo scampanio in intensità e durata.

Inutili furono le proteste e i ricorsi della cittadinanza, organizzata in comitati e class action. Una piccola chiesa Rastafariana a viale Jonio, fino a quel momento passata inosservata, montò sul balcone un altoparlante, trasmettendo Bob Marley tre volte al giorno, un garage in viale Adriatico si rivelò ospitare una piccola chiesa Quacchera non ufficiale; gli abitanti delle vie limitrofe se ne resero conto quando udirono per la prima volta il canto del qua qua trasmesso a tutto volume in occasione delle funzioni delle 10.00 e delle 19.00. Le proteste dei cittadini raggiunsero proporzioni impressionanti, ma nonostante il coinvolgimento dei più insigni avvocati l’articolo 66 e soprattutto il comma 44 sulle emissioni sonore si rivelarono immodificabili.

Quello che accadde nei mesi successivi lo conosciamo bene. Il fenomeno della competizione sonora religiosa, originato in un punto ben preciso della periferia Nord-Est della Capitale, si allargò a macchia d’olio, coinvolgendo tutti i quartieri di Roma e poi dell’intero Paese. Inutili furono le proteste degli abitanti di Abbiategrasso quando il richiamo del Muezzin echeggiò cinque volte al giorno, così come le lamentele dei cittadini di Milano Est allorché la locale Chiesa Vegana cominciò a diffondere all’ora dei pasti il loro inno, l’urlo del maiale sgozzato. Tornando a Roma, alcuni piccoli culti nacquero proprio in virtù del comma 44.

Il culto degli Who fu il primo di questi. In un cortile di via Capraia alcuni seguaci della prima ora montarono delle casse ipertrofiche, trasmettendo dal lunedì al sabato tutti i brani di Tommy, riservando “Love, reign on me” alla domenica. Intorno allo Stadio Olimpico si diffuse il culto della A.S. Roma, e fu eretta una statua-diffusore giallorossa a forma di Antonello Venditti. Fenomeno analogo ebbe luogo ad Ariccia, per i seguaci della Lazio, dove un’immensa statua a forma di porchetta divenne meta di pellegrinaggi da tutta la regione, e il Grande Grugnito si poté ascoltare ad ogni cambio d’ora, per decine di chilometri.

A Napoli il sindaco promosse un concorso cittadino per nuovi culti partenopei, in chiave di sviluppo turistico, e il progetto vincitore fu quello del Grande Gigi. Una statua cava del famoso cantante fu eretta al Vomero, capace di accogliere settantacinquemila fedeli, e non meno di diecimila figuranti travestiti da Gigi D’Alessio furono dislocati in via permanente ad ogni angolo cittadino. Una enorme cassa acustica fu calata all’interno del Vesuvio, e lo stesso Gigi officiò la prima funzione. Gli esperti concordano nel ritenere un suo acuto particolarmente intenso la causa dell’eruzione che poi, come sappiamo, distrusse la città.

Questo portò molti esperti a mettere in discussione l’articolo 66, ma le polemiche portarono a poco. Oggi il numero dei nuovi culti è in continua crescita, e il comma 44 più solido che mai, celebrato inoltre dalla potente Chiesa dei Quarantaquattro gatti, situata all’interno del Colosseo. I romani lo sanno bene, e ogni suo abitante ne conosce l’inno a memoria, diffuso sulla città dalla mongolfiera a forma di gatto che tutti i bambini amano veder passare in alto nel cielo, al mattino quando Roma si sveglia e al tramonto, quando va a dormire.

John Gillies

(English translation below)

Mi torna in mente spesso, anche se in fondo ho incrociato la sua vita per pochi anni, e le occasioni di vederci non sono state tante.

L’ho conosciuto nel 2001. Satu mi propose di passare il Natale con sua zia materna Anna-Liisa, detta Ansku, e suo marito Johnny. Partimmo da Roma con un volo Ryanair, atterrammo a Glasgow, dove ci fermammo per alcuni giorni, e poi da lì raggiungemmo Powfoot, frazione di Annan. Un piccolo villaggio sul mare, nella regione del Dumfries & Galloway, Scozia.

Il viaggio in aereo fu un pò disgraziato e mi beccai un forte raffreddore. Ero imbarazzato all’idea di presentarmi a due persone che non conoscevo col naso rosso che gocciolava, ma devo dire che Ansku e Johnny non me lo fecero pesare in alcun modo. Zia e nipote avevano mille cose da raccontarsi e furono ben felici di mollarmi solo a casa con Johnny, andando a passeggiare e chiacchierare lungo il mare. In quei giorni anche lui era raffreddato e usciva molto poco. Passava gran parte della giornata a guardare la BBC, a osservare gli uccellini affollare un paio di mangiatoie che quotidianamente riforniva, o le pecore brucare il prato verde sulla collina di fronte, attraverso una grande vetrata nel salotto.

Quando compresi che avrei dovuto passare molte ore al giorno solo con lui mi sentii perso. Il mio inglese mi metteva in grado di dirgli alcune cose, ma la mia comprensione del suo era ai minimi termini. Il forte accento e la costruzione delle frasi, veloce e infarcita di umorismo “witty” lo rendevano, alle mie orecchie, pressoché incomprensibile. Nonostante questo, capimmo molto velocemente i nostri limiti e riuscimmo a convivere piuttosto bene. Io me ne stavo accoccolato in un angolo del salotto a leggere, seduto per terra sulla moquette color crema, lui rimaneva seduto sulla sua poltrona, a sfogliare il giornale, dormicchiare e a osservare le pecore. Ogni tanto si voltava a guardarmi e io gli elargivo grandi sorrisi. Poi mi diceva qualcosa che non capivo e accendeva la TV. Allora scivolavo accanto a lui e guardavamo insieme programmi di intrattenimento pomeridiani, talk show o giochi a premi. Quando il pubblico rideva anche lui rideva e io mi accodavo.

Johnny e le Alpi

Un pomeriggio bisbigliò qualcosa con aria complice, poi aprì le ante di un armadio e tirò fuori delle videocassette, interminabili sequenze e primi piani per lo più di fiori. Una piacevole tortura. Quelle registrazioni erano una sua abitudine che si ripeteva identica ogni anno, a Madeira, dove villeggiava con Ansku per l’intero mese di novembre, una fuga al sole di cui avevano bisogno, nel mese più triste dell’anno. Mi chiesi da dove provenisse Il vizio della videocamera, lo chiesi a Satu e quello che mi raccontò fu una sorpresa. La mia visione di Johnny cambiò.

Si trattava di un retaggio di una vita di lavoro come prop-man alla Pinewood Studios. Carpentiere di formazione, per molti anni Johnny aveva lavorato nel cinema, viaggiando per il mondo, dall’Europa al Sudamerica, all’Africa, costruendo set e allestendo scenografie. Era stato proprio durante uno di questi viaggi che aveva incontrato la futura moglie, a Helsinki, sul set di “Billion Dollar Brain”, film di spionaggio del 1967 con Michael Caine, regia di Ken Russell.

Johnny propose ad Ansku di raggiungerlo a Londra, dove viveva, nel quartiere di Heston. Ansku prese un aereo per Heathrow nel 1967 e da allora non lasciò più il Regno Unito. Si sposarono il 21 marzo del 1968. La loro fu una vita di lavoro, durante la quale Johnny partiva per i suoi viaggi con la Pinewood e quando possibile entrambi tornavano in Finlandia in vacanza. Quando Johnny raggiunse l’età della pensione decisero di vendere la loro casa a Heston e nell’agosto del 1988 si comprarono una villetta a schiera con giardino a Powfoot, delizioso villaggio affacciato sul Solway Firth, al confine tra Scozia e Inghilterra, nella meravigliosa regione del Dumfries & Galloway. Duecento anime in inverno, duemila d’estate, immensi campi da golf, un villaggio di bungalow per i turisti e il Powfoot Hotel, con al piano terra un ristorante e l’unico pub del paese.

Un pomeriggio Johnny mi vide scrivere una cartolina; allora si alzò, lasciò il plaid sulla poltrona e si diresse in camera, facendomi segno di aspettarlo. Tornò vestito di tutto punto, giacca di tweed e pantaloni di velluto, e mi resi conto che non l’avevo ancora visto vestito così. Mi fece cenno di seguirlo, e ci incamminammo fino alla buca delle lettere, proprio accanto al canale lungo il quale il Pow scorre verso il mare. Imbucai la cartolina e tornammo a casa, senza parlare, solo sorrisi.

Alcuni anni dopo Johnny si ammalò e morì. E un giorno, molto tempo dopo, mi arrivò sul polso un bellissimo orologio inglese, che è quello che indosso in questo momento, un Accurist del 1965, a cui tengo molto, e soprattutto, una parte dei suoi attrezzi da lavoro.

E poi vidi queste foto di scena, che trovo bellissime. Saltarono fuori da un vecchio album, che Satu trovò in casa quando anche la zia Ansku morì. Quando le mostrammo ad alcuni vicini di casa, che conoscevano Johnny e Ansku da una vita, rimasero stupiti. Scuotevano la testa, in silenzio, increduli. Non le avevano mai viste neanche loro. Rappresentavano qualcosa di nuovo, che non riuscivano a far combaciare con l’immagine che avevano di Johnny, un uomo riservato, casalingo, tranquillo, metodico e fortemente abitudinario.

Durante le riprese di “Billion Dollar Brain”, a Helsinki

Cosa resta di un uomo? Una domanda che mi sono fatto più di una volta e per la quale non ho risposte. Naturalmente i ricordi che lasciamo negli altri e in questo, lo penso spesso, forse sottovalutiamo i nostri piccoli gesti, soprattutto i gesti di gentilezza, quei momenti che a noi possono sembrare normali, ma che a volte lasciano il segno intorno a noi.

John Gillies

He is often on my mind, even though our lives coincided only for a few years, and there were few opportunities to meet.
I met him in 2001. Satu invited me to spend Christmas with her maternal aunt, Anna-Liisa, known as Ansku, and her husband Johnny. We left from Rome with a Ryanair flight, and landed in Glasgow, where we spent a few days, before reaching Powfoot, near Annan. It is a small seaside village in the region of Dumfries & Galloway in Scotland.

The plane ride was a bit unfortunate and I caught a bad cold. I was embarrassed at the idea of presenting myself to people who I did not know with a dripping red nose, but I must say Ansku and Johnny did not make me feel any more uncomfortable than I already was. On the other hand, the aunt and the niece were quite happy to leave Johnny and me in the house, while they went along the coast for walks and chats. Those days Johnny, too, was with a cold and did not go out much. He spent most of the day watching the BBC, or observing the birds crowd around the feeders that he replenished daily, or the sheep grazing the green meadow on the opposite hill, through a large glass window in the living room.

When I realized that I would have to spend many hours a day alone with him I felt lost. My English enabled me to tell him some things, but my understanding of his was at its lowest. The strong accent and the construction of the sentences, fast and full of “witty” humor made him, to my ears, almost incomprehensible. Despite this, we understood our limitations very quickly and managed to coexist quite well. I was crouched in a corner of the living room reading, sitting on the floor on the cream carpet, he remained sitting in his armchair, leafing through the newspaper, dozing and watching the sheep. Every now and then he turned to look at me and I gave him big smiles. Then he told me something I didn’t understand and turned on the TV. Then I would slide next to him and we would watch afternoon entertainment programs, talk shows or game shows together. When the audience laughed he laughed too and I joined in.

View from Johnny’s and Ansku’s window

One afternoon he whispered something with a conspiratorial air, then opened the doors of a wardrobe and took out some video cassettes, endless sequences and close-ups mostly of flowers. A pleasant torture. Those recordings were a habit of his that was repeated identically every year, in Madeira, where he holidayed with Ansku for the entire month of November, an escape to the sun that they needed, in the saddest month of the year. I wondered where the vice of the video camera came from, I asked Satu and what she told me was a surprise. My view of Johnny changed.

It was a legacy of a lifetime of work as a prop man at Pinewood Studios. A carpenter by training, Johnny had worked in the cinema for many years, traveling around the world, from Europe to South America, to Africa, building sets and setting up scenography. It was during one of these trips that he met his future wife, in Helsinki, on the set of “Billion Dollar Brain”, a 1967 spy film starring Michael Caine, directed by Ken Russell.

Johnny’s toolbox; on the cover a sticker of the film Moonraker, 1979. Photographed in Powfoot, 16 February, 2024

Johnny proposed to Ansku to join him in London, where he lived, in the Heston neighborhood. Ansku took a plane to Heathrow in 1967 and has never left the UK since. They married on 21 March, 1968. Theirs was a life of work, during which Johnny left on his travels with Pinewood and when possible they both returned to Finland on holiday. When Johnny reached retirement age they decided to sell their house in Heston and in August 1988 they bought a terraced house with a garden in Powfoot, a delightful village overlooking the Solway Firth, on the border between Scotland and England, in the wonderful region of Dumfries & Galloway. Two hundred souls in winter, two thousand in summer, immense golf courses, a village of bungalows for tourists and the Powfoot Hotel, with a restaurant on the ground floor and the only pub in the town.

One afternoon Johnny saw me writing a postcard; then he got up, left the blanket on the armchair and headed into the room, signaling me to wait for him. He came back fully dressed, tweed jacket and corduroy trousers, and I realized I hadn’t seen him dressed like that yet. He motioned for me to follow him, and we walked to the letterbox, right next to the canal along which the Pow flows to the sea. I posted the postcard and we went home, without speaking, just smiles.

A few years later Johnny fell ill and died. And one day, much later, a beautiful English watch arrived on my wrist, which is the one I’m wearing right now, a 1965 Accurist, which I care a lot about, and above all, some of his work tools.

And then I saw these stage photos, which I find beautiful. They came out of an old album, which Satu found in the house when aunt Ansku also died. When we showed them to some neighbors, who had known Johnny and Ansku all their lives, they were amazed. They shook their heads, silently, in disbelief. They had never seen them either. They represented something new, which they were unable to match with the image they had of Johnny, a reserved, homely, quiet, methodical and strongly habitual man.

What remains of a man? A question I have asked myself more than once and for which I have no answers. Of course, the memories we leave in others and in this, I often think, perhaps we underestimate our small gestures, especially gestures of kindness, those moments that may seem normal to us, but which sometimes leave their mark around us.

View from Johnny’s and Ansku’s window

Buongiorno Rebibbia!

ARTICOLO ORIGINALE QUI —> https://rondine.fi/2024/01/buongiorno-rebibbia/

Roma, via Bartolo Longo, periferia nord-est della città, Carcere di Rebibbia. Sono le 9.45 di sabato 20 gennaio e sono seduto in macchina. Il cielo è grigio, come le mura esterne del carcere. A pochi metri, un gruppetto di donne e bambini, in fila, di fronte a un cancello per l’accesso al pubblico. Aspettano di poter entrare. Le donne hanno con sé buste di plastica e borsoni. Immagino siano vestiti puliti, cose da mangiare, cucinate a casa. Un bambino molto piccolo tiene la mano sinistra stretta a quella della madre, una calza della befana nella destra. Un netturbino ha spazzato le foglie dei platani e ora riempie dei grandi sacchi neri, li chiude con lo scotch, una macchina della polizia penitenziaria si ferma di fronte all’unico bar sulla strada.

Non è la prima volta che mi trovo qui. Sono stato all’interno del carcere di Rebibbia già tre volte, l’ultima proprio nel gennaio di un anno fa, grazie all’iniziativa Devi vedere! di Radicali Italiani. Con loro ho visitato anche la Casa circondariale di Regina Coeli, proprio “ner core” di Roma, tra Tevere e Trastevere, e tanti anni fa anche il Carcere minorile di Casal del Marmo, periferia nord-ovest di Roma, grazie all’Associazione Cemea del Mezzogiorno. Perché? Il motivo è lo stesso che mi ha portato a proporre a Vera De Stefanis di vederci stamattina, l’interesse nei confronti di una realtà estrema e spesso incomprensibile, un luogo dove uomini hanno pieno controllo su altri uomini, uno dei livelli più bassi della condizione umana.

Con Vera ci siamo scritti, ma mai incontrati di persona. L’ho conosciuta per puro caso, o forse è stato l’algoritmo che regola i miei accessi a Spotify, un paio di mesi fa. Il sistema mi ha suggerito di ascoltare un podcast e quando ho letto il titolo non credevo ai miei occhi: Buongiorno Rebibbia!

In Buongiorno Rebibbia! dall’aprile 2023 Vera racconta, in finlandese, la sua esperienza di volontaria presso il carcere, iniziata in realtà già nel 2018, attraverso l’Associazione VIC-Caritas. Ma eccola, è arrivata, mi fa segno con la mano, ci riconosciamo. Mi guida all’interno del carcere, nella parte accessibile ai visitatori, e ci sediamo di fronte a un cappuccino, in un bar gestito da detenuti. A parte tre di loro e un paio di guardie penitenziarie, siamo soli. Sono ormai le 10.30 e Vera alle 11.30 dovrà entrare nella struttura, per poi uscirne verso le 15.00. Ho tante domande da farle, iniziamo.

Vera, come sei giunta a vivere in Italia, cosa ti ha spinto inizialmente? Hai vissuto sempre a Roma? 
Ho conosciuto mio marito in Finlandia e nel 2006 mi sono trasferita in Italia. Si, ho sempre vissuto a Roma.

Come sei arrivata ad avvicinarti al mondo carcerario italiano? Avevi fatto esperienze simili in Finlandia?
È un mondo che mi interessa, anche se non sono mai stata in un carcere finlandese. Avevo iniziato a tenere una corrispondenza con un ergastolano americano e durante un viaggio in Sudafrica ho visitato il carcere dov’era detenuto Nelson Mandela. Dopo alcuni anni che ero in Italia ho appreso, tramite internet, che era possibile fare volontariato a Rebibbia. L’Associazione con cui lo faccio si chiama Volontari in Carcere (VIC) e fa parte della Caritas.  

Qual è l’Italia che si vede da Rebibbia, da questo specifico punto di osservazione? 
Non è facile rispondere. Mi vengono in mente alcune parole chiave: condivisa, difficile, paradossale, solidarietà, speranza, välittäminen… non so tradurlo bene in italiano; tipo affettuosità, premurosità, sollecitudine. Vivo in questo Paese dal 2006 e ormai sento di conoscerlo, almeno un po’, ma è solo dal 2018 che frequento Rebibbia. Da qui vedo un Paese con tanto benessere ma anche tanta fragilità. E tanta solidarietà, che non vedo in Finlandia. Da noi lo Stato pensa a molte cose, si occupa di molti aspetti della vita. Qui è diverso. E nel carcere è evidente: tutta “la parte sociale” è a carico delle famiglie e dei volontari. Senza famiglie e volontari il sistema carcerario crollerebbe.

Puoi fare qualche esempio?
Conosco un ergastolano al quale la moglie ogni volta porta un pacco da 20 kg, il massimo peso consentito. Vestiti, cibo. Non potrebbe sopravvivere senza quel pacco. E forse non potrebbe sopravvivere senza i volontari, i corsi di italiano, teatro, musica. Il mio volontariato lo svolgo in coppia con una ragazza, lavoriamo molto bene insieme e sento che riusciamo spesso a fare la differenza, ma è perché siamo al reparto G8, in altri reparti non sarebbe così facile. Intendo dire che ogni reparto ha caratteristiche e dinamiche sue, ogni reparto ha bisogno un suo approccio. Con la mia personalità e carattere sento di poter dare e fare in più al G8. 

Sei sempre stata al reparto G8? Che caratteristiche ha?
No, prima ero a G12, ma da due anni sono passata al G8. Al G12 non riuscivo a creare rapporti duraturi, mentre al G8 è diverso, i detenuti sono tutte persone che scontano pene lunghe, dai cinque anni all’ergastolo. Molti di loro lavorano, la maggior parte dentro, ma alcuni anche fuori, rientrano in carcere per dormire. È il settore più tranquillo del carcere e ci vengo una o due volte a settimana. Parlo con un detenuto alla volta, in una stanzetta spoglia, dove c’è solo un tavolino e due sedie. Raccolgo le loro richieste e le porto all’esterno, alle loro famiglie o agli avvocati dell’associazione. Sono sempre trattata con molto rispetto, i detenuti sono di tutte le età, ma quelli che assisto io hanno dai 40 ai 60 anni, sono maturi, tranquilli, rispettosi.

Una casetta donata all’autore da Onofrio, un carcerato di Regina Coeli, nel 2017.

Perché hai sentito il bisogno di raccontare la tua esperienza in un podcast? 
Il carcere è un microcosmo che riflette la realtà all’esterno, ma nessuno lo riconosce come tale. Penso sia importante raccontare quello che succede nelle carceri perché le ingiustizie dentro sono anche le ingiustizie della società fuori. Inoltre, vorrei parlare apertamente del fatto che è arrivato il momento di cambiare la nostra immagine del prossimo. Viviamo in un costante pessimismo nel quale il prossimo è spesso una minaccia, è visto come un pericolo. Quando ero piccola guardavo sempre uno spettacolo per bambini in televisione, dove c’era un pagliaccio che si chiamava Pelle Hermanni ed ero affascinata dal fatto che lui parlasse con la madre attraverso uno schermo. Ecco, adesso ci sembra normale, ci siamo dentro, siamo tutti sui social e veniamo monitorati in continuazione. Tutti sanno un po’ tutto di tutti, dove e cosa mangiamo, dove andiamo in vacanza, che musica ascoltiamo, come ci vestiamo, e questo porta a una categorizzazione continua, siamo spesso costretti in categorie, etichette. E questa enfasi sull’immagine ci porta a pensare che, se non hai successo, soldi, se non ti sei laureato ecc, non hai diritti. Allora è più facile pensare che i detenuti sono sempre stati così, e dire “quello se l’è cercata, è un delinquente”, ma la vita è altro, è imprevedibile. Quando parlo con i detenuti, torna sempre la riflessione su quel momento di svolta, quel momento in cui la loro vita ha sterzato, ha preso una piega diversa. Alcuni di loro non ricordano neanche come è successo. In altri casi è diverso, ci sono detenuti che provengono da contesti mafiosi o comunque di malavita storica, sono nati in famiglie così, ci sono cresciuti dentro.

Secondo te il rapporto tra la società e il carcere è diverso tra Italia e Finlandia? 
In Finlandia la maggior parte delle pene sono abbastanza corte, al contrario dell’Italia dove molte persone sono condannate a pene molto lunghe, per cui c’è maggior pressione. Basti pensare ai reati per cannabis. Tantissimi detenuti in Italia sono dentro per piccolo spaccio di cannabis, anche per 6 anni, è una follia. E tanti di loro, condannati a pene sotto i 4 anni, sono persone non pericolose che potrebbero stare ai domiciliari, oppure fare percorsi di recupero. È assurdo che si marcisca in carcere per la cannabis, e questo fa stare male tutti, perché le carceri sono sovraffollate.  In Finlandia non ci sono situazioni di così forte disagio, e il cittadino medio pensa che i detenuti stanno fin troppo bene. Ma non c’è, come in Italia, compassione e solidarietà. Si pensa che in fondo, se uno finisce in carcere, nonostante l’assistenza sociale e maggior welfare, beh, allora se lo merita, è solo colpa sua.

Questo diverso atteggiamento si può spiegare con le radici religiose-culturali dei due Paesi? L’Italia è un paese di radice cattolica, la Finlandia luterana. A prescindere se uno crede o meno, l’educazione nei due paesi riflette l’impostazione religiosa.
Forse sì. In Finlandia devi sempre avere paura. In un certo senso non puoi sbagliare. In Italia c’è più tolleranza verso chi sbaglia, più comprensione per il fallimento. Certo, questo influenza la visione del carcere e dei detenuti.

Che tipo di utenza ha il tuo podcast?
In Finlandia è ascoltato soprattutto in Uusimaa, la regione di Helsinki. Ma naturalmente è ascoltato anche dai finlandesi in Italia. L’età degli ascoltatori è generalmente superiore ai 40 anni.

Hai mai pensato di realizzare degli episodi in italiano?
No, il podcast è nato così, ho bisogno di esprimermi nella mia lingua.

Hai paura di stancarti? Hai mai pensato di sviluppare progetti di volontariato diversi?
Stancarmi? Assolutamente no. In carcere ho trovato il mio posto per connettermi e aiutare altre persone, stare vicino a chi ha bisogno. Per quanto riguarda nuovi progetti, ho appena proposto un corso di yoga per detenuti, e sono molto felice di dire che è stato approvato! Mi fa piacere portare questo approccio all’interno del carcere, per me lo yoga non è solo un’attività fisica, ma una filosofia di vita, è spiritualità, visione del mondo. Lo yoga mi rappresenta, è libertà di essere, di esistere, trovare se stesso ed esprimersi, e voglio portare questo senso di libertà all’interno del carcere.

Sono le 11.30, riconsegno le tazze al barista. Usciamo all’aperto. È uscito uno spicchio di sole. Una coppia di runners ci passa accanto correndo, ci raggiunge il rumore del traffico lungo via Tiburtina, qualcosa di familiare. Vera mi accompagna alla macchina. La saluto augurandole il meglio per il suo corso di yoga. Torno a casa, lei entra in carcere.

Il podcast Buongiorno Rebibbia! si può ascoltare gratuitamente su tutte le piattaforme audio.

ARTICOLO ORIGINALE QUI —> https://rondine.fi/2024/01/buongiorno-rebibbia/

I cani

Illustrazione di Vale Robin Tosi, Dicembre 2023 (altro di Vale Robin Tosi qui)

Ehi ciaooo!

Ciao Sandra, come stai? Ma sei in macchina?

Eh sì, si sente? Ma tranquillo, sei in vivavoce.

Ah bene, ma siamo soli o…?

Sì sì, sono sola, sto salendo a Bologna, per lavoro. E tu?

No, io sono a Roma, oggi lavoro da casa, ma attacco tra mezz’ora.

Ah fantastico, ogni tanto fa bene prendere distanza dall’ufficio. Che mi racconti?

No, niente, avevo solo voglia di sentirti, nulla di speciale…poi magari quando torni, se ti va potremmo…

Aspetta.

Cosa?

No, no, non dicevo a te… cioè sì, ma… ma cosa cazz…

Sandra, che succede? Traffico?

….

Sandra?

Franco, no, è che c’era una macchina… cioè non puoi crederci…

Cioè? Che faceva?

Ma vaffanculo! Ma cazzo, ma cosa cazzo cazzo fai?

Sandra, tutto bene?

….

Sandra?

Sì, scusa, ora è ok, ma cioè non puoi neanche immaginare, cioè ti dico, una macchina sulla corsia d’emergenza che mi sembrava ferma ma no, correva, più o meno, in retromarcia! L’ho vista da lontano, perché tutti la scansavano, mettevano tutti le quattro frecce, ma poi questo, è stato velocissimo, ha girato l’auto e ha proseguito sulla corsia d’emergenza, ma in senso contrario!! Cioè un pazzo totale!

Non ci credo…cioè mai vista una cosa del genere, ma…

E questo cosa cazzo significa?

Ora cosa… Sandra?

No, vabbè non hai idea!

Cos’altro succede?

Continua qui ——> I CANI – Racconticon

L’agnello

Il tono era piuttosto affannato, allarmato e urgente, impossibile rimandare. Uscii dal bagno: “sì Papà, che succede?” La spiegazione fu veloce e sintetica, dieci minuti dopo lo aspettavo in auto di fronte al cancello del giardino, su Via Romagnoli. Partimmo subito, direzione Marana. Mentre scendevamo per via Ugo Ojetti, mi voltai a guardarlo: Papà era piuttosto sudato e ancora in tenuta da bicicletta, scarpe da ginnastica, pantaloni della tuta blu stinti, k-way e cappelletto di lana in testa, calzini a risalire sui pantaloni.
Aveva sentito il richiamo percorrendo la stradina che costeggiava la marana, era sceso a guardare di che si trattasse, inoltrandosi tra le robinie e le ortiche, finché non aveva visto il più piccolo, tutto nero. Era sul ciglio dell’acqua e belava come un ossesso. Solo allora ne aveva scorto un altro, affiorare con la punta del muso dall’acqua melmosa; aveva inforcato la bicicletta, in cerca di rinforzi.

Quello nell’acqua era più grosso, di colore chiaro. Il piccolo continuava a belare da spaccare le orecchie, seppur allontanandosi man mano che ci avvicinavamo. Papà era preoccupato, l’ansia di non fare in tempo. Mi chiese di tenerlo per un braccio, mentre si calava in acqua. Il problema maggiore era dato dalla scivolosità della piccola riva, in quel punto piuttosto alta. Era quasi impossibile rimanere fermi, un fango tanto viscido quanto puzzolente.
Mi attaccai all’albero più vicino e strinsi forte la mano di Papà, mentre si calava provando a raggiungerlo, immergendo un piede nel fango. La situazione era drammatica e ridicola allo stesso tempo: io attaccato saldamente ad un albero, proteso verso la marana; Papà attaccato alla mia mano destra, quasi orizzontale sul pelo dell’acqua; l’agnello, gli occhi fuori dalle orbite, se possibile ancora più terrorizzato di prima, affondava e riemergeva ritmicamente.
Mentre il più piccolo belava incessantemente, il più grande belava a tratti. Si fermava, ricominciava, sempre più forte, ma per brevi momenti. Se di messaggi si trattava, era evidente che stessero dicendo cose diverse, comprensibilmente.

Dopo qualche tentativo infruttuoso, cambiammo strategia, invertendo i ruoli. Papà si ancorò con l’interno del gomito ad un albero stringendomi la mano sinistra, io mi calai, riuscendo dopo una decina di minuti ad agguantare l’agnello per la collottola, come fosse stato un cane. Una volta preso il grande, stranamente tranquillo, ci ponemmo il problema del più piccolo. Cercammo di avvicinarlo, ma fu impossibile. Si inoltrò nella boscaglia della marana e sparì alla nostra vista.
Cosa fare del nostro? Lasciarlo lì era escluso, data la sua tendenza a cascare nelle acque sbagliate. Lo portammo in macchina, completamente zuppo, anche noi non eravamo da meno.
Proposi di cercare il gregge, doveva essere da qualche parte.
Papà si diresse lungo la strada principale, scorgemmo delle pecore su una collina, al di là di un cancello che chiudeva una recinzione. Il cancello era bloccato da una corda; sciogliemmo il nodo ed entrammo. Fermammo la macchina in cima ad una salita, su uno spiazzo fangoso, delimitato da alcune costruzioni basse, in mattoni e tetto di lamiera.
Silenzio assoluto. Nessuno in vista. Papà fece per scendere.
In un attimo la macchina fu circondata da non meno di una dozzina di pastori maremmani, bianchi e grossi come vitelli. Alcuni abbaiavano furiosamente, altri si lanciavano sui finestrini, ringhiando e mostrando i denti. Mi girai di scatto a controllare che i finestrini di dietro fossero chiusi, l’agnello urlava spaventato a morte.
Dopo un minuto di quel baccano, constatato che nessun pastore umano fosse presente, decidemmo di tornare indietro. I cani non ci seguirono fino al cancello, limitandosi a rincorrere la macchina per un po’, latrando e ringhiando.
Una volta a casa, Papà andò a fare una doccia, visibilmente spossato. Prima però chiudemmo l’agnello in garage, dove ricominciò a belare. Stanco e felice dell’impresa, mi sedetti su una sedia in giardino e cominciai a chiedermi come dargli del latte.
Ma questa è un’altra storia.

Lo specchio ovale

Da Blogorilla Sapiens, originale QUI

─ Dove vanno a finire le immagini riflesse nello specchio? Me lo chiedo spesso.
Mi alzai a sedere sul letto, incrociando le gambe. Giovanni continuò a radersi con attenzione. Mi piaceva guardarlo mentre si radeva e non iniziavo mai una conversazione finché non avesse finito. Stavolta però aveva iniziato lui, perciò risposi.
─ Pensi che si conservino in qualche modo? È questo che intendi?
Giovanni cercò il mio sguardo e annuì. Poi posò il rasoio e si sciacquò con cura. Infine, asciugandosi le guance, portò avanti il suo ragionamento.
─ Mi ha sempre affascinato l’idea che ogni specchio trattenga le immagini di tutte le persone che gli sono comparse davanti, da qualche parte, per sempre.
─ Mi sembra un’idea bislacca ─ risposi.
Giovanni si voltò a guardarmi.
─ Perché non potrebbe essere così, Marta? In fondo quale prova abbiamo del contrario? Ti sei mai chiesta perché è un tabù rompere uno specchio?
Lo osservai. Si era lievemente accalorato. Aveva posto l’argomento in modo leggero e ora tremava in modo quasi impercettibile. Stava cercando di dirmi qualcosa. Continuò a parlare, mentre applicava il dopobarba che gli avevo regalato.
─ La prima volta che ci ho pensato è stato un paio di mesi fa, quando entrammo in quella vecchia casa che volevamo comprare, ricordi?
Annuii. La casa era un ex convento isolato, che si affacciava sul fiume. In cattive condizioni, certo, ma bellissima. Gli era piaciuta tanto, ma mi ero opposta alla sua intenzione di prenderla. Avevamo discusso forte quella sera, e avevo fatto fatica a convincerlo che sarebbe stato un inferno viverci, umida, le pareti annerite dalla muffa, e quell’odore… sarebbe stata una battaglia persa.
─ Bene, forse ci avrai fatto caso, c’era quello specchio ovale, lungo fino a terra, con la cornice di legno spessa, ti ci potevi specchiare per intero. Eravamo proprio là davanti, quando abbiamo detto no, non ci interessa. Ricordi?
Guardai Giovanni, era diventato improvvisamente serio e lo sguardo ora era fisso di fronte a sé. Faceva fatica a raccontare, lo sentivo. Risposi di sì, ma non avevo conservato dei ricordi così precisi di quel giorno.
─ L’agente immobiliare aveva cacciato un sospiro e insomma in quel momento, non so come spiegarlo, ho sentito che lo specchio ci guardava, oppure era qualcuno o qualcosa che ci osservava, dallo specchio. Non prendermi per matto… ma quando siamo usciti, ricordi? Sono uscito per ultimo, perché l’agente ti aveva accompagnato fuori per farti vedere il giardino, il suo ultimo tentativo, e io mi sono voltato e nello specchio c’eri ancora tu, eri riflessa proprio al centro, ma non era possibile, perché eri già fuori.
Tremava, era pallido. Mi avvicinai, gli presi una mano fra le mie.
─ Sei molto stanco, lo sai. E poi… perché solo io?
─ Non c’eri solo tu. Voglio dire, io non c’ero, ma non eri sola. Erano arrabbiate.
Giovanni si guardava le mani. Erano accostate l’una all’altra, come se pregasse. Mi ricordai improvvisamente della sua espressione tirata, quando quel giorno ci aveva raggiunto all’esterno, in giardino, correndo.
─ Giovanni che vuoi dire? Chi altro c’era? ─ alzai la voce.
─ Non lo so, nel senso che non le conosco, non le avevo mai viste prima.
─ Non le conosci? Ma di chi parli? Quanti erano, posso saperlo?
─ Marta, non so spiegartelo. Dietro di te c’erano altre persone riflesse. Ero tornato indietro, mi ero avvicinato allo specchio per controllare e tu eri là, e avevi quello sguardo sgomento, e accanto e dietro di te c’erano quelle donne. Alcune guardavano verso di me, altre ti… ti squadravano, ti esaminavano, o almeno sembrava così.
─ Due mesi fa, e me lo dici solo oggi? ─ scesi dal letto, mi allontanai di un paio di metri. ─ Giovanni, perché solo oggi?
─ Perché dopo non è più accaduto nulla del genere. Fino a ieri.
Lo guardai, era pallidissimo, quasi cereo. Si avvicinò in silenzio, ora aveva delle profonde occhiaie scure. Fece alcuni passi verso di me, guardando in basso, assorto, come se stesse ascoltando una voce interiore. Sedette sul bordo del letto. Senza rendermene conto mi allontanai ancora, avvicinandomi alla porta del bagno. Ora le nostre posizioni iniziali si erano invertite.
─ Giovanni, per l’amor di dio, che succede? Che vuoi dire con questo? Ieri cosa? Arrabbiate chi?
Giovanni aveva alzato gli occhi da terra e mi guardava, confuso. Poi strinse i pugni e sollevò lo sguardo, ora fissava qualcosa alle mie spalle. Guardava lo specchio del bagno.
─ Loro. Ci hanno trovato.

Mi voltai ed erano lì. Ci guardavano in silenzio e si muovevano lentamente, in quel piccolo spazio circoscritto dalla cornice di ceramica azzurra. Rimasi impietrita e mi sorpresi a pensare che potessero uscire e unirsi a noi, ma i loro sguardi e i loro movimenti mi sembrarono escludere questa possibilità, pur essendo così reali. Quattro di loro erano pressoché ferme al centro dello specchio, mentre altre due, alte e magre, si affacciavano e scomparivano dietro quei margini, con un fare che trasmetteva una sensazione di nervosismo, di impazienza. Percepii con chiarezza che cercavano di mettersi in contatto con Giovanni e me, o forse solo con me. Mi girava la testa. Spensi la luce.
─ Marta, le hai viste? Sono loro, ne sono certo.
─ Non so di cosa parli, Giovanni. Non ho visto nulla. Devi riposare, sei esaurito.

Raccolsi le mie cose e uscii dalla stanza. Lo sentii singhiozzare. Non sapevo cosa fare. Presi le scale, scesi in strada ed entrai in macchina. Appena avviai il motore cominciai ad avere paura. Per me e per lui. Rimasi ferma, l’auto in moto, il freno a mano tirato. Poi avvertii di nuovo quella sensazione di impazienza, di urgenza. La sentivo in me e intorno a me, occupava lo spazio disponibile nell’auto, fino a saturarlo. Una melassa densa che mi avvolgeva completamente, pur permettendomi di respirare. Alzai lo sguardo verso lo specchietto retrovisore. Ero lì, i miei occhi spauriti, il trucco sciolto e subito intorno, piccole di dimensioni ma ben distinguibili, tre di loro. Due le riconobbi, la terza era diversa, i capelli rossi, gli occhi azzurri. Spensi il motore, ma non funzionò.
Uscii dall’automobile e rientrai in casa. Presi l’ascensore, senza riflettere. Lo specchio interno si popolò in pochi istanti. Fissai il pavimento, fino al piano. Giovanni era seduto a terra, la testa fra le mani.
─ Non è da ieri, giusto? È da più di un mese che sei strano, me ne rendo conto davvero solo ora. Giovanni, da quanto va avanti questa storia?
─ Allora le vedi anche tu? Dimmelo, non sono impazzito.
Si alzò da terra e di nuovo unì le mani, come se pregasse. Un gesto nuovo, che gli vedevo fare per la seconda volta da quando lo conoscevo.
─ Forse lo siamo entrambi. Non so che dire. Ho bisogno solo di sapere, neanch’io so perché, da quanto tempo.
─ Da quel giorno. Le vedo da quel giorno. Ma fino a ieri qui non le avevo mai viste.
Quella notte non chiudemmo occhio. La mattina dopo decidemmo di tornare alla casa lungo il fiume.

Non c’era più, solo un rudere, due mozziconi di pareti ancora in piedi, annerite dal fuoco. Sul greto un pescatore, ci osservava. Quando ci avvicinammo indicò l’acqua e fece segno di fare silenzio.
─ Il convento? È venuto giù un mese fa. Poi son venuti a curiosare tra le macerie, hanno portato via un paio di cassettoni, gli unici due mobili ancora interi, poche cose. E poi qualche balordo ha dato fuoco a quel che era rimasto, fotografie, vestiti. Mi fa strano ora, era lì da sempre. Era disabitato da almeno cinquant’anni, credo. L’ultima suora era morta allora. La diocesi l’ha affidato a una agenzia, negli ultimi due-tre mesi hanno provato a venderlo, ma chi se lo sarebbe preso mai, ridotto com’era?
Tornammo in città, in silenzio. Togliemmo lo specchio grande dalla camera da letto, e quello in salotto. A quello in bagno non riuscimmo a rinunciare. Imparammo a convivere. Ci volle qualche mese, ma trovammo infine il coraggio di ricominciare a invitare a casa amici e parenti. Fin dalla prima visita fu chiaro che nessun’altro le vedeva. Non lo confessammo a nessuno, mai. Poi un giorno Alice, la figlia di mia cugina, disse che aveva paura, che c’erano le streghe in bagno. Aveva quattro anni allora, la mamma si scusò e se la portò via. Non li abbiamo più invitati. Per sicurezza non abbiamo più invitato nessuno.

Abbiamo venduto la casa, ma non è servito a niente. Perché noi? È la domanda che ci accompagna da allora. Ora sono incinta, viviamo in una casa senza specchi, senza ascensore, abbiamo rinunciato all’automobile. Ne sono certa, ce la caveremo.

Da Blogorilla Sapiens, originale QUI

Marco Tosi