Come è iniziata tutta questa storia dei muri di stracchino io l’ho capito solo qualche mese dopo. Non avevo neanche quattordici anni quand’è iniziata e sinceramente ero pure un po’ squinternata, come diceva mio padre. Che poi mio padre era il classico bue che dice cornuto all’asino, come si dice, ma questa è un’altra storia, o forse è proprio il punto. Comunque sia, mio fratello Gino, perché è di lui che sto parlando, si era messo in testa di fare le diavolerie, e io che avevo solo quattro anni più di lui lo lasciavo fare, anzi, più si teneva alla larga e meglio stavo e quindi lo ignoravo per lo più, come mio padre ignorava sia Gino che me, in fondo, o almeno è quello che penso oggi, perché allora non pensavo a nulla. Che poi non è che oggi pensi che mio padre proprio ci ignorasse, ma certo se ci seguiva lo faceva molto discretamente e da lontano, perché non lo vedevo mai, stava sempre dentro quel suo laboratorio a riparare televisori, radio, lavastoviglie e lavatrici e a malapena alzava lo sguardo quando mi affacciavo alla porta. E insomma Gino un giorno va da lui, entra spavaldo e gli fa papà posso attraversare le pareti? prometto di non farmi male. E mio padre sorride e senza neanche guardarlo gli fa sì, ma attento a non soffocare nello stracchino, che insomma i muri non siano troppo spessi, perché se ci rimani incastrato dentro rimani senz’aria, capito? E Gino allora si ferma un attimo, e ancora me lo vedo curvo al centro del laboratorio a mangiarsi l’unghia del pollice e poi fa ok, devo stare attento ai muri grossi, grazie papà. E va via di corsa. E quell’altro che continua a sorridere sotto i baffi senza staccare gli occhi dalla tv o cos’era. E poi la signora Muratti, che arriva di corsa tutta arrabbiata, ma era qualche giorno dopo e chiede di me, perché lo sapeva che la mamma era partita per il Canadà e il papà era sempre occupato, e si lamenta perché ha trovato Gino in camera della figlia Lisetta, e questo non se lo spiega perché come ha fatto dice, che c’ero anche io in ingresso e poi questo Gino che lavoro fa adesso che era tutto sporco di formaggio o panna e puzzava anche un pochino. E allora qualche domanda me la faccio ma giusto il tempo di distrarmi e cambiare pensiero, tra le mille cose che facevo in quei tempi e poi ricapita questa storia, lasciavo Gino in camera sua a fare i compiti e non lo trovavo più, perché la sua camera aveva una parete che dava sulle scale e quello se la svignava, sempre sporco di stracchino. E poi un giorno ci provo anche io, chiedo a mio padre se posso volare e lui sì, ma solo a mezzo metro da terra. E sempre scuotendo la testa e sorridendo, e io dico grazie papà, ma questo non l’ho detto a nessuno, mi diverto così tanto a scendere lungo le colline verdi, quelle dietro il paese, e raggiungo il ruscello e poi lo seguo fino alla cascata e poi giù, fino a quando si butta nel Grigione, e sono così leggera, devo solo stare attenta ai rami, ai massi, ma col tempo ho imparato, e che ci vuole. Gino non lo sa che volo e io non gli ho mai detto niente che so dei muri. Solo una volta ho chiesto a papà se lo sa di noi, che possiamo fare queste cose e lui, sempre col sorriso scuote la testa e fa certo che lo so, basta che non vi fate male.
Quando squillò il telefono avevo appena finito il secondo e Sandra aveva iniziato a sparecchiare. Mezz’ora dopo ero in macchina e come d’accordo Pascucci mi richiamò. Lo misi in viva voce.
«Mi scusi se l’ho disturbata a cena, dottore, io non glielo so spiegare, non ci provo neanche, deve venire a vedere lei, anzi, deve venire a sentire. Non credo che… senta, faccia presto per favore, l’aspetto fuori dal Centro.»
La linea era disturbata e tagliai corto. Mentre imboccavo la superstrada chiamai Sandra: «No, Maurizio non mi ha spiegato nulla, fa il misterioso. Si sentiva male e poi dice che non riesce, che devo vedere coi miei occhi. Lo conosci anche tu, sono vent’anni che lavora nel Centro, così non si è comportato mai. No, non spaventato, eccitato sì, allarmato… ecco, allarmato è la parola giusta. Sì, tranquilla, non mi fermo a dormire».
Chiusi la telefonata, presi l’uscita per Seufòria, il piccolo centro abitato in fondo al quale sorgeva l’omonimo istituto per sordomuti, o il Centro, come veniva chiamato da tutti. Il paese aveva preso il nome dalla struttura, o forse era il contrario. Quale che fosse la verità non faceva differenza, il paese e il Centro erano divenute una cosa sola. Dei quaranta dipendenti ero l’unico a non abitare in paese, per volontà di Sandra, e di questo in cuor mio l’avevo ringraziata spesso, ma non era stato difficile convincermi. Non amavo stare in paese. Una volta lasciato il Centro sentivo il bisogno di non incontrare colleghi e pazienti, almeno fino al mattino seguente.
Entrando in paese rallentai. Era già buio, e le strade erano disseminate di dossi per ridurre la velocità, anche se di auto a Seufòria se ne erano viste sempre poche. Quasi tutti gli abitanti si muovevano in bicicletta, percorrendo i pochi chilometri che collegavano le case con il Centro, i negozi e le scuole.
Oltre la prima rotatoria scorsi un piccolo gruppo di persone. Erano tutti in piedi, fermi, all’interno di un piccolo parco giochi, illuminati dal cono di luce di un lampione. Mi avvicinai, con i fari illuminai la scena e passai oltre. Stavano parlando, erano una decina tra uomini e donne, e un paio di bambini. Mi sembrò di riconoscere due giovani pazienti del Centro, ed ebbi la sensazione che stessero partecipando alla conversazione, anzi che fossero loro a parlare, mentre gli altri li ascoltavano. Non era possibile. Pensai a Pascucci, al tono della sua voce.
Raggiunto il centro del paese vidi altri due capannelli di gente, ai lati della piazza. Qui si avvertiva maggiore agitazione, non c’era dubbio. Accelerai e imboccai il viale in salita che portava al Centro. I cipressi che bordavano la strada mi sembrarono più scuri del solito. La luna brillava da dietro la struttura che ora occupava tutta la mia visuale, man mano che mi avvicinavo.
Fermai l’auto e solo allora notai che tutte le finestre erano illuminate, non dormiva nessuno. Quando aprii la portiera e scesi dalla macchina sentii per la prima volta quel suono. Ripensai a Pascucci. No, non era la prima volta, era il rumore di fondo che al telefono copriva con la sua voce. Era il suono che mi era sembrato di sentire attraversando la piazza, solo molto meno forte. Al contrario, quello che ora proveniva dal Centro era assordante. Chiamai Pascucci al cellulare, ma mentre aspettavo che rispondesse lo vidi. Correva verso la sua auto, parcheggiata vicino alla mia. Quando la riconobbe si girò su sé stesso e mi cercò con lo sguardo.
«Non lo so com’è iniziata, non ne ho la più pallida idea. Ero con Malavasi, gli passavo le consegne per la notte, e sentiamo quel rumore forte, nel seminterrato. Io rimango in ufficio e lui scende a vedere. Dopo una mezz’ora torna su e dice che non c’è nulla, è tutto a posto, ma che c’è confusione in mensa, ha una faccia strana, pallida. Entriamo nel salone e stanno tutti lì, in pigiama, ma proprio tutti. E parlano, Gianni, parlano. Sì, hai capito bene, ho detto parlano, ma non si capisce niente. E allora ti chiamo. Malavasi si mette a piangere, non l’avevo mai visto così. L’ho mandato a casa, che dovevo fare.»
In quel momento mi resi conto che anche Pascucci aveva pianto. Aveva gli occhi rossi, i capelli arruffati, si era tolto il camice e la cravatta. Gli proposi di andare a vedere, annuì. Per un attimo pensai di chiamare Sandra, me lo lesse negli occhi: «Prima decidiamo cosa fare. Restare, andare via, chiudere tutto».
Ci avvicinammo alle grandi portefinestre del salone. Il rumore era fortissimo. Quando entrammo nessuno si voltò. Alcuni erano seduti ai tavoli, altri a terra, in cerchio. Allargai lo sguardo. Una ventina dei più giovani giocava a pallone in un angolo della sala. Avevano liberato spazio, spostato tavoli e sedie. Un altro gruppo aveva messo della musica e stava ballando. Una decina dei più piccoli correva in cerchio, ridendo e spintonandosi. Parlavano tutti, e ridevano a crepapelle.
«Ma che lingua… cioè da dove viene? Cos’è?»
Pascucci alzò le spalle, si portò le mani alla testa e si massaggiò le tempie.
«Non ne ho idea, e sicuro non lo sanno neanche loro. Gianni però, ascolta bene, ti sembra una lingua, un idioma, insomma? E se fosse, come e quando lo hanno imparato? Sono decenni che ci lavoriamo… e ora? Guardali, non usano il linguaggio dei segni, neanche per sbaglio. Sembra abbiano cancellato tutto. Poco prima che tu arrivassi, due ragazze hanno preso il microfono della sala e si sono messe a cantare, se si può dire così. Ora sono scese in paese. Ma ripeto, ti sembra una lingua?»
Mi appoggiai a uno dei tavoli, chiusi gli occhi, mi misi in ascolto. Ora riuscivo a definire meglio la sensazione che provavo da quando avevo aperto la portiera dell’auto. Una voliera. Ci trovavamo in una immensa voliera. Cercai con lo sguardo Francesca e Paolo, i due giovani pazienti che avevo seguito con maggior frequenza negli ultimi mesi. Mi parve di scorgerli in fondo al salone, lui in pigiama, lei in tuta da ginnastica, mano nella mano. Lasciai Pascucci e attraversai quella folla confusa, coprendomi le orecchie per limitare il frastuono. Quando li raggiunsi si voltarono a guardarmi, sul viso di entrambi un misto di felicità e di amarezza, come se sapessero già. Mi avvicinai e gli chiesi come stavano, col linguaggio dei segni. Paolo aveva i lunghi capelli biondi spettinati e gli occhi cerchiati di rosso, Francesca si sistemò gli occhiali e gli si avvicinò, come a proteggerlo. Ripetei la mia domanda, poi indicai quella moltitudine urlante e chiesi cos’era accaduto. Paolo cominciò a lacrimare e scosse la testa, Francesca mi guardò e allargò le braccia. Non mi capivano più, l’unico canale di comunicazione con me, Pascucci, Malavasi e il resto del mondo era chiuso, era evidente. Poi Francesca mi si avvicinò, aprì la bocca ed emise un trillo delicatissimo, come non ne avevo mai ascoltati prima. Si fece silenzio intorno, ora ci guardavano tutti. Paolo le strinse i fianchi, mi guardò negli occhi e cinguettò, con forza. Percepii la loro paura, il loro stupore, ma anche la loro gioia. In quel momento Pascucci mi raggiunse, mi tirò con discrezione la manica del camice e mi indicò con un cenno del capo i grandi finestroni del salone, quelli che si affacciavano sul parco. Le finestre erano aperte e decine di uccelli si erano posati sui davanzali, alcuni sbattevano le ali, altri erano fermi, tutti rimanevano in silenzio. Poi dal centro del salone partì un gorgheggio e gradualmente tutti i presenti cominciarono a cantare il proprio verso. Fu allora che gli uccelli spiccarono il volo e cominciarono a volteggiare in cerchio su quella moltitudine umana, in quello che mi sembrò un saluto, un canto di benvenuto.
“Stavo pensando in termini di film in miniatura … Film di tre minuti e mezzo con momenti di punta e non solo un livello di intensità per tutto il tempo”.
Burt Bacharach
Burt Bacharach
Ci lascia a 94 anni una leggenda della musica pop americana del ventesimo secolo: Burt Bacharach.
Durante gli anni Sessanta, Bacharach e il paroliere Hal David scrissero una serie di canzoni di successo melodicamente complesse e seducenti, romantiche e soavi. È sorprendente che Bacharach non abbia composto colonne sonore per molti più film, così tanto del suo lavoro sembra perfettamente cinematografico. Descrivendo la sua tecnica compositiva, ha detto: “Stavo pensando in termini di film in miniatura … Film di tre minuti e mezzo con momenti di punta e non solo un livello di intensità per tutto il tempo”.
Il coinvolgimento di Bacharach nel cinema iniziò nel 1958, con la canzone del titolo – scritta…
Questo articolo nasce dall’incontro di due elementi: il mio interesse per la Finlandia e la mia frequentazione di Siena e provincia, per motivi di lavoro, da circa venticinque anni. Qualche settimana fa questi due elementi sono venuti in contatto, quando ho saputo, piuttosto casualmente, che Ida Lönnrot è vissuta ed è morta a Siena. Ho…
La Commissione decise di riunirsi ancora, dopo aver visionato l’ultimo rapporto della task force Sistema Solare. Nelle pieghe del lungo resoconto avevano infatti intravisto motivi di preoccupazione più che giustificati.
– Bene, l’avete letto tutti, no? – esclamò Foster, il Commissario Capo – direi che potremmo farli entrare e ascoltarli sul punto in questione.
– Con permesso, Signore…non sono ancora stati sondati – commentò con tono incerto il Commissario Gozzo, fresco di nomina.
– E allora avviate la procedura. Nel frattempo portate qualcosa da bere, senza stupefacenti, naturalmente.
L’Ispettore Alba e il Vice Aurora, una volta sondati, entrarono nella Sala Ellittica, sotto lo sguardo dei trenta membri della Commissione. I loro nomi erano, come da antica consuetudine, in codice, precauzione che appariva superflua, dato che i loro pensieri erano appena stati resi espliciti, sbloccati dalle sonde empatiche e trasmessi telepaticamente ad ognuno dei Commissari.
– Bene, Alba e Aurora, grazie del vostro lavoro. Il punto ora non è capire. Il punto è agire. Credo vada portato qui, sondato, rimodellato e restituito alla sua funzione.
L’ispettore Alba ottenne il permesso di parlare e commentò: – Signore, credo che il rimodellamento sia da escludere, il soggetto è molto forte, un TS, Signore, “Tempra Superiore”; certo, possiamo tentare.
– Dobbiamo tentare, Ispettore. Il Piano di Intervento che avete pianificato avrebbe un percorso molto più rapido se fosse lui stesso a guidarlo. Certo, potrebbe essere eliminato da faide interne come già successo in passato; in questo caso seguiremo il vostro piano nella sua seconda versione. Che sia un TS appare evidente, ma ditemi, come l’avete constatato di persona? Ha punti deboli?
L’Ispettore Aurora prese la parola, con un piccolo inchino: – il sistema di cui è a capo è demoniaco, Signore. Il suo è un misto di marketing, doppia morale pubblico-privata, oculata gestione economico-finanziaria, lobbying ai più alti livelli, manipolazione politica e infiltrazione nei gangli del potere dei vari…
– La tecnica del cuculo? – si inserì Foster. – Sì, esatto, realizzata con spietatezza, signore. I fedelissimi sono tutti psicotici gravi. Le violenze che si infliggono tra loro… ci hanno turbato.
– Come si riproducono, Ispettore? – chiese Aragon, uno dei Membri Anziani – esclusivamente per cooptazione. Ehm…questo è l’aspetto fondante, Signore, il potere è detenuto esclusivamente da maschi. Le femmine vengono cooptate e inserite nel ciclo di violenze, ma in a forma secondaria e pressoché prive di potere effettivo. A loro viene però affidato uno dei settori di infiltrazione più delicato, signore, quello dei Luoghi di Cura e delle Agenzie Educative, Ospedali e Scuole, nel linguaggio locale.
-Molto interessante, ispettore. Su quali debolezze psicologiche fanno leva?
– Il sistema è complesso. I bambini vengono manipolati fin dalla nascita. Una volta maturi sessualmente hanno già sviluppato gravi forme psicotiche che coltivano fino alla morte, temuta con terrore. In sostanza viene loro insegnato che il desiderio sessuale è una colpa, ma allo stesso tempo che la vita non esisterebbe senza di esso. Questa contraddizione non viene spiegata e induce quindi a nuove sofferenze psichiche. Infine, viene insegnato che il decadimento fisico è una cosa triste, ma allo stesso tempo fonte di saggezza, che la vita è bella, qualunque essa sia, e che la morte è il peggiore dei mali. Allo stesso tempo però, essa viene presentata come la porta per un mondo fantastico e di gioia totale e perenne. Questo ennesimo conflitto porta alle forme più pervasive di psiconevrosi. Tutta la gestione del processo è affidata ad una estesa organizzazione, capillare e ben strutturata. Chi aderisce può continuare a nutrirsi di violenza, subendola e infliggendola.
– Naturalmente” – commentò Foster, pensoso – Ma se la morte è una porta per un mondo di gioia, perché non si privano della vita?
– Viene presentata come una pratica estrema che preclude l’accesso a quel mondo, signore. Hanno pensato a tutto.
– Come utilizzano questo potere, Ispettore? – chiese Aragon.
– Stiamo ancora approfondendo, ma possiamo dire che fondamentalmente lo perpetuano, signore. E’ un aspetto della D.I.O., come l’abbiamo denominata. Dai più alti vertici dell’organizzazione all’ultimo bambino psicotizzato, soffrono tutti della stessa sindrome, Delirio Infantile di Onnipotenza”.
Mi fa sentire come un moscerino, o ancor meglio un bacarozzo, o un porcellino di sant’Antonio, di quelli che si appallottolano e si nascondono sotto i sassi piatti e rimangono così disorientati quando sollevi il sasso e si ritrovano investiti dalla luce del sole. Accanto a me il mare è un animale, immenso. Si muove in continuazione, respira, si sposta, cambia colore, riflette il cielo sopra di sé, o forse è il contrario, perché le nuvole in fondo le crea il mare, e c’è una relazione tra loro, intendo il mare e il cielo, così profonda e misteriosa che né io né i porcellini di sant’Antonio ci possiamo capire nulla. E poi urla, grida, anche di notte, parla, con Dio forse, o forse è lui Dio, chi potrebbe argomentare il contrario? Magari ce l’abbiamo sempre avuto sotto gli occhi e non l’abbiamo mai capito. È questo che mi fa sentire quello che in fondo sono, niente, ma mi do una meta, perché è così che si fa, giusto? Così mi hanno insegnato. Arrivo perciò al faro, quello abbandonato, la vernice rossa e bianca scrostata, il suono del vento che si infila su per le scale, i gradini marciti, che si sgretolano sotto i miei scarponi ma ancora fanno il loro lavoro, mi portano in cima, mi sento così alto, ma è solo un sassolino a punta sulla spiaggia, o uno di quei comignoli che facevo da bambino, lasciando scivolare la sabbia e l’acqua tra le dita. E mi affaccio, e da lassù scorgo il faro nuovo, quello grande, costruito al largo, con la luce gialla e rossa, l’orgoglio di tutti qui, ma il mare non se ne è mai accorto, ne sono certo, come un elefante non si accorgerebbe di una formica aggrappata a una delle centinaia di foglie che inghiotte a occhi chiusi, e la manda giù, senza neanche percepirne il sapore acidulo, ma anche lui quando raggiunge il mare si deve fermare, e al massimo costeggiarlo, come facciamo io e il porcellino di sant’Antonio, camminando sulla sabbia, e io calpesto quella piccola pallina grigia e ne brucio altre, alzando senza ragione le pietre piatte lungo il cammino e l’elefante farebbe lo stesso, ne sono certo, e torno a casa, mi pulisco gli scarponi sullo zerbino e dico sono arrivato fino al faro vecchio e ho guardato il mare.
(sottotitolo “fa ridere ma fino a un certo punto”)
Sono stato nuovamente bannato da Facebook. Mi è successo solo tre volte, in un crescendo di assurdità demenziale. So di non essere il primo e certamente non sarà l’ultima volta, accadrà nuovamente, ci sono tutte le premesse.
LA PRIMA VOLTA
Novembre 2019, inserisco in un post una foto tratta da Helsingin Sanomat, il principale quotidiano Finlandese. La foto è certamente dura, un camion che trasporta verso una sommaria sepoltura dei soldati caduti durante la seconda guerra mondiale, durante la quale l’esercito finlandese combatté contro l’Unione Sovietica. Insomma, una foto in bianco e nero, che si trova ovunque. Vabbé. facebook mi vieta le dirette live (che non ho mai fatto né prima né dopo) per trenta giorni. Non mi prendo la briga di contestare questa cosa, ammesso che serva a qualcosa farlo.
LA SECONDA VOLTA
Ho premesso che qui si tratta di un crescendo di assurdità demenziale. Il 6 settembre di quest’anno pubblicoun videodi un vespino che mi sveglia ogni mattina e in generale mi assilla sfondando il muro del suono con la sua marmitta bucata. L’avevo incontrato per caso e avevo girato un micro video facendo attenzione a non riprenderlo bene, per rispettare la sua identità, ecc. Avevo accompaganto il video con questa innocua didascalia: “finalmente ho incontrato vespa smarmittata, sono mesi che mi spacca i timpani”.
Un mio caro amico aveva subito colto l’occasione per sottolineare la differenza d’età fra noi e trattandomi da vecchietto acido (come in effetti sono).
Io gli avevo perciò risposto con un commento GRAVISSIMO che infatti è stato cancellato da facebook. Eccolo:
Per questo commento al commento del mio amico ho ricevuto un warning paternalista che sostanzialmente diceva: “siamo consapevoli che tutti possono sbagliare ma occhio, non saremo così buoni la prossima volta. Oggi ci limitiamo a cancellare il tuo commento.”
LA TERZA VOLTA
Arriviamo così al ban di ieri (24 ore di sospensione dell’account e 48 ore di interdizione dai gruppi). La motivazione è la violenza dellimmagine che ho pubblicato, cioé
QUESTA:
Mi sono sbellicato dal ridere però lo so che accadrà ancora. Prima o poi senza pensarci pubblicherò un video di Tom e Jerry che si prendono a martellate in testa e non ci vedremo più!
25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Oggi il parlamento ha approvato l’istituzione di una commissione bicamerale di inchiesta sul “femminicidio e su ogni forma di violenza di genere”. Nessun voto contrario, nessun astenuto. Bene, una buona notizia, ma non basta. Due giorni fa, a Roma, quartiere Prati, sono state uccise tre donne, in pieno giorno. Dall’inizio del 2022 in Italia sono state uccise circa cento donne, per lo più da ex conviventi, ex mariti, ex fidanzati. E qui arrivo a Tom Jones e a Lando Fiorini. A metà luglio con la mia compagna siamo andati a a Perugia, all’Umbria Jazz, concerto di Tom Jones. Un bellissimo concerto, durante il quale Tom ha cantato uno dei suoi pezzi più famosi, Delilah. Canzone bellissima e soprattutto molto orecchiabile.
Ti rimane in testa, e infatti è ancora lì, dal 1968. Dopo averla ascoltata mi sono incuriosito e sono andato a leggere il testo. Una mia vecchia abitudine. E ho scoperto che si tratta di un femminicidio. E la canzone resta bella, su questo non ho dubbi. Qualche giorno dopo, da qualche cella del mio cervello mi è giunta un’informazione: “guarda che ne abbiamo una anche noi, è Lella”. Lella, una canzone del 1970, di Edoardo de Angelis. Ci sono cresciuto, con Lella. Per me ha la voce di Lando Fiorini, ma l’hanno cantata tutti, da Antonello Venditti in poi. A Roma non è solo una canzone, è un pezzo della cultura cittadina, è qualcosa che prima o poi ogni romano incontra sulla sua strada, e assimila. Consiglio di ascoltare come Lando Fiorini introduce la canzone. Se la cerchi in rete, ne trovi infinite cover, e la senti cantata allo stadio Olimpico, da migliaia di tifosi romanisti.
E poi si è aperta una seconda celletta, ed è emerso un ricordo di quelli che vorresti cancellare per sempre. Sardegna, capodanno 1997. Ero ospite di cari amici, avevano aperto la loro casa a me e alla mia compagna. L’atmosfera era serena e aspettavamo la fine dell’anno assaggiando porcheddu e bevendo mirto. Al cinema del paese davano “La vita è bella” di Roberto Benigni. Una giovane donna, maestra elementare, amatissima in paese, è in sala, con un coetaneo. Fuori, ad aspettarli, c’è un allevatore locale, innamorato di lei e non corrisposto. Quando escono dalla sala, si avvicina e li abbatte, come due delle sue pecore. Sul paese cala un silenzio totale, il giorno dopo attraverso un luogo diverso, le strade deserte, le finestre serrate, i negozi chiusi, la campana della chiesa che suona a morto, camionette della polizia circolano a bassa velocità. I genitori dei miei amici ci chiedono di non andare in giro, di restare a casa.
1968, 1970, 1997, 2022. Siamo liberi?
Temo di no. Elisa Giomi, Commissaria AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) proprio oggi sul suo account facebook ci segnala, ma direi che è un esempio fra i tanti, la serie netflix YOU, la storia di un “grande amore”:
“In You, la voce narrante del protagonista induce ad identificarsi con lui, con i suoi tormenti di amore e slanci protettivi verso Beck, anche quando la controlla, pedina, spia, segrega e infine uccide…si chiama romanticizzazione della violenza di genere. Beck, la vittima, ha condotte imprudenti e non sa tutelare la propria privacy né online né offline (“se l’è cercata!”), ma ha amicizie intense con altre ragazze, che nutrono sospetti verso Jack. Lui però neutralizza e persino uccide anche loro: non esistono amicizie, alleanze, collettività capaci di proteggere una donna dalla violenza di un (singolo) uomo.”
Elisa Giomi è su vari social, consiglio di seguirla, e di leggere per intero il suo post. Forse oggi l’AGCOM metterebbe in discussione una canzone come Lella. Forse.
Per primo udimmo il rombo. La cosa in sé non ci stupì, perché ne avevamo sentito parlare, però ci impressionò, e molto. Non avevamo mai provato nulla del genere, neanche durante i peggiori temporali in Irlanda, o quando l’oceano si era inferocito, durante la traversata per raggiungere il Nuovo Mondo, e le onde, alte come cattedrali, si abbattevano una contro l’altra.
E poi la polvere, un mare di polvere. Ne avevamo le narici piene, e gli occhi, le orecchie. Avevamo protetto la bocca con la sciarpa, la testa col cappello, per il resto eravamo tutt’uno con quella nuvola, ovunque intorno a noi.
Quando raggiungemmo la sommità della collina, il rombo era cambiato. Non era più solo un rumore che ci avvolgeva, era la terra che tremava. Il paesaggio era brullo, pochi ciuffi d’erba qua e là, solo sassi, tanti, e nessun albero. Trovammo una buca abbastanza ampia dove accamparci. Liam e Patrick legarono i cavalli a un grosso arbusto, poi presero dei massi e in pochi minuti crearono una sorta di muretto, sul lato più a sud. Era qualcosa che facevano sempre con grande facilità, tra i muretti a secco ci erano cresciuti. Ci eravamo appena sistemati che si alzò il vento e la nuvola di polvere si fece meno densa; giallo ocra, si era in parte fusa con le altre, bianche, nel cielo sopra di noi.
Adesso, guardando in basso, potevamo scorgerlo, ed era cambiato ancora. Ora il rombo era rumore, era terra che tremava, era un fiume che scorreva sotto i nostri occhi, né azzurro né verde né giallo, ma nero. E non era acqua, era carne. Un fiume di carne.
I cavalli erano irrequieti, e lo eravamo anche noi. Lassù certo ci sentivamo al sicuro, ma anche piccoli e inermi. Liam tirò fuori i cucchiai, aprì una latta di fagioli e ne versò il contenuto in tre piatti di metallo, gli unici che avevamo. Mangiammo in silenzio. Patrick prese la borraccia, bevve un sorso e cacciò un rutto. Fu l’unico suono umano che sentii quella sera. Coprimmo i cavalli e ci infilammo sotto le coperte. Il rombo e il tremolio ci cullarono, ci addormentammo subito, il fuoco acceso, al centro della buca.
All’alba il sole mi trafisse, obbligandomi a coprirmi anche gli occhi con la coperta. I ragazzi dormivano ancora, un sonno tranquillo, tutto sommato. Il rombo non era mai cessato, per tutta la notte. Credo che se si fosse interrotto ci saremmo svegliati di colpo. Mi scrollai la coperta di dosso. Senza volerlo rovesciai la polvere su quel che rimaneva della brace. Imprecando, mi allontanai di una decina di metri e andai a pisciare non lontano dai cavalli, dietro a un masso che la sera prima non avevo notato. Mi stavo ancora scrollando l’ultima goccia che quasi urlai dallo spavento. Non eravamo soli. Corsi a svegliare Liam e Patrick ma li trovai già in piedi. Patrick era al centro della buca, si grattava la testa.
– Perché hai spento il fuoco, capo? Ora per riaccenderlo ci vorrà un bel po’ e io ho una dannata voglia di caffè e…
– Shhh… abbiamo visite. Seguitemi, non dite una parola – lo zittii, un dito di fronte al naso.
Tornammo al masso, ci acquattammo a terra. Erano almeno una cinquantina, ben visibili sul crinale di una collina al di là del fiume nero che scorreva in fondo alla valle. Alcuni a cavallo, la maggior parte a piedi. Non ci avevano visto, oppure avevano deciso che non era ancora giunto il momento di occuparsi di noi. Liam strisciò fino alla buca e tornò col suo piccolo cannocchiale.
– Sto attento ai riflessi, tranquilli – ci anticipò, coprendo lo strumento con una sciarpa.
Passandoci il cannocchiale li osservammo a turno, senza più parlare. Molti erano guerrieri, il viso dipinto di rosso, gli occhi bordati di nero. Nel gruppo c’erano però anche donne e bambini. Seduti in cerchio, sorridevano e scherzavano. Gli uomini al contrario erano serissimi, parlavano fra loro e indicavano quella corrente mugghiante. Col cannocchiale ci spingemmo alle due estremità di quel flusso ininterrotto di pelo, zoccoli, corna, musi, occhi, code. Per quanto potessimo allungare lo sguardo, non ne scorgevamo la fine.
Decidemmo di tornare alla buca. Non ce la sentimmo di riaccendere il fuoco. Bevemmo il caffè avanzato e Liam aprì un’altra latta di fagioli. Dato da mangiare e da bere ai cavalli scendemmo sull’altro lato della collina e ci mettemmo in marcia. Quella era zona loro, e per quanto ce ne fosse per tutti non ci avrebbero perdonato la più piccola intrusione. Risalimmo quel fiume nero per alcuni chilometri, finché non ci sentimmo al sicuro. Trovata una fonte d’acqua, allestimmo un nuovo campo e i ragazzi tirarono su un nuovo muretto a secco.
Ci preparammo alla caccia. Alla polvere ci eravamo abituati e anche il rombo, ormai, non lo sentivamo più.
Il diavolo in persona? Ragazzo, di storie strane qua sotto ne abbiamo sentite tante, ma questa le batte tutte, ma dove… L’uomo allungò un braccio e con la mano toccò tutto ciò che incontrava, finché le sue dita riconobbero il vetro di una bottiglia. Si rese conto che era ancora da stappare e cacciò una bestemmia. ─ In questa cazzo di galleria non si vede nulla, sono certo che ce n’erano di già aperte, perdio! Ce l’hai un cavatappi? Ehi, ci sei? Il ragazzo rispose a bassa voce: ─ Maresciallo, sono qua, davanti a lei. ─ Non ti vedo, non vedo un cazzo di niente… insomma ce l’hai o…? Non finì la frase, con sollievo riconobbe la forma dello strumento che il ragazzo gli aveva messo in mano. Stappò il vino e dopo un paio di lunghi sorsi si rivolse nuovamente al suo compagno. ─ Ragazzo, cominciamo da capo. Sei tornato nella galleria diciotto? Lo sai che a quella non possiamo avvicinarci, è zeppa di gas e se ci sei andato altro che un diavolo, potevi vedere l’inferno al completo! ─ No Maresciallo, non sono sceso nella diciotto, non sono matto. Era in superficie, appena fuori dall’imbocco della miniera. Ero uscito per l’acqua, e poi non ho detto che era il diavolo, era uguale però, cioè come me lo immagino… ─ Cioè? ─ L’uomo cercava, nel buio, di capire da dove provenisse la voce del ragazzo. ─ Era… mi sembrava, molto alto, sicuro più di due metri, ma era sollevato da terra, si muoveva appena, dondolava a destra e a sinistra, sbattendo… beh… ─ Sbattendo cosa? ─ Le ali, Maresciallo. ─ Ragazzo, se stai cercando di marcare visita con questo trucco giuro che ti spezzo le gambe e allora in ospedale ci vai davvero. Allora, sai che facciamo? Risaliamo su e mi fai vedere dove si nasconde questo pipistrellone… sai cosa penso? Che hai visto un crucco, e non te ne sei neanche accorto. Ed è stata la tua giornata fortunata, perché non ti ha visto neanche lui. Sarà uscito dalla sua trincea per pisciare, e al buio ha perso l’orientamento, e tu hai perso la tua occasione, il tuo primo bastardo austriaco, peccato.
Mentre parlava calzò gli stivali, infilò l’elmetto e sistemò la cartucciera sul petto. Non smise di parlare neanche quando cominciò a scurirsi la fronte e le guance con la cenere. Infine si attaccò ancora alla bottiglia, bevve un sorso e sputò due volte a terra: ─ Merda, vino e cenere insieme fanno schifo, perdio! Allora? Sei pronto? Il ragazzo era pronto. Aveva cominciato a capire cos’era accaduto. Doveva essere andata come diceva il Maresciallo, pensò; era vivo per miracolo, il crucco non l’aveva visto e lui non aveva riconosciuto il crucco. Si infilò l’elmetto e sospirò, in direzione della voce del superiore: ─ Sì, sono pronto, la precedo. Risalirono lungo le gallerie della miniera abbandonata dove il plotone si era acquartierato da una decina di giorni. In ogni rientranza, in ciascuna grotta, decine di soldati dormivano sdraiati o stavano seduti, assorti, lo sguardo fisso nel buio. I due militari si muovevano con attenzione lungo le passatoie. Non li vedevano, ma li sentivano respirare, percepivano il fetore proveniente da quella massa di corpi sudati, sporchi, sfiniti. Avevano scelto la miniera per guadagnare tempo, in attesa dei rinforzi da sud. Era questione di un’altra settimana, ancora sette giorni da topi e poi sarebbero tornati su, in trincea.
Nessuno dei trecento soldati era autorizzato a uscire, tranne una mezza dozzina di sabotatori, incaricati di prendere l’acqua per tutti, al ruscello, uno alla volta e solo di notte. Il maresciallo, via via che sparivano, li aveva sostituiti, senza raccontare niente a nessuno e senza capirci nulla. Uno su due non tornava, era un fatto. C’era qualcuno, là fuori, che sapeva aspettare, e che in silenzio se li portava via. Un crucco, certo, cresciuto nel fango della trincea, abituato a strisciare in silenzio, dipinto di nero, coltello in bocca, con abbastanza coraggio da avvicinarsi alle linee nemiche. Ne aveva avuti anche lui di soldati così, avanzi di galera, galeotti da ergastolo. Ricordava bene Gaetano, un pluriassassino di Caserta, quanto gli era affezionato. L’aveva tirato fuori dal carcere a vita e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Ricordò il Natale di due anni prima, quando Gaetano gli aveva portato una testa d’austriaco in regalo. Alla fine però un cecchino se l’era preso, proprio all’alba, mentre tornava da una delle sue missioni.
Quando arrivarono all’imboccatura della caverna di uscita, si fermarono e rimasero in ascolto. Dall’esterno giungevano solo i richiami degli uccelli notturni, il rumore delle foglie mosse dal vento, null’altro. Il maresciallo rimosse con circospezione le frasche che coprivano l’ingresso e sbirciò fuori. Poi strisciò all’esterno, seguito dal ragazzo. Raggiunsero il ruscello e lì il giovane indicò con lo sguardo una piccola radura, poco più di cinque passi di diametro, circondata da alberi e massi. Solo un debole rumore d’acqua e il gracidare sommesso di un paio di rane spezzava il silenzio, lo rendeva più evidente. La luna era coperta dalle nuvole ma la poca luce bastò al maresciallo per vedere il viso del ragazzo che lo guardava, poi fissava un punto preciso, e poi tornava a guardarlo, annuendo. Era quello il punto. L’uomo strisciò al buio per alcuni metri e si portò sul posto. Poi si voltò verso il giovane e non lo vide più. Fece un giro su se stesso, ma niente, era scomparso. Tastò allora il terreno e trovò qualcosa. Ai suoi piedi giaceva il corpo di un soldato, bocconi, il cranio sfondato. Alzò lo sguardo e il ragazzo era di nuovo lì, che lo guardava. Il maresciallo sussurrò, incredulo: ─ Ma non capisco, sei stato tu? Sibilò a bassa voce. Il ragazzo fece di no con la testa. Il maresciallo allora girò il cadavere su se stesso e la luce della luna ne illuminò il volto. A quella vista scattò in piedi, con la destra estrasse il pugnale dalla fondina, mentre con la sinistra si toccò la fronte ed esclamò: ─ Tu! Ma questo… sei tu!
Quella cosa allora si alzò in volo, ma solo il tempo di aprire e chiudere le ali, marroni e lucide, poi si avventò sull’uomo, affondando gli artigli nelle sue spalle, per una decina di centimetri. Il maresciallo non morì subito. Per alcuni minuti riuscì ancora a percepire il vento freddo, lo sbattere delle ali, a scorgere le cime degli alberi ondeggiare sotto di lui, poi più niente.