Tra il 1928 e il 1929, la cantante finlandese Greta de Haartman si esibisce a Parigi e in molte città francesi. Le sue esibizioni suscitano l’interesse della casa discografica francese Pathé, che propone all’artista di registrare alcune canzoni tradizionali finlandesi presso lo studio Archives de la Parole. Queste registrazioni non saranno mai pubblicate da Pathé,…
E’ difficile descrivere l’emozione di una partita così, vista in diretta. Ricordo solo una eccitazione enorme, pari all’incredulità. Il Brasile era il calcio. Non era possibile batterlo, tutt’al più si poteva sperare di uscirne con dignità.
Eravamo una decina di adolescenti, quasi tutti della stessa classe del Liceo Nomentano, a casa di Roberta, quartiere Talenti, nel caldo romano di inizio Luglio. Lei e le sue amiche si scioglievano ad ogni inquadratura di Socrates, Zico, Falcao, ma soprattutto di Eder. Eder le faceva impazzire.
I miei amici ed io invece avevamo occhi solo per Bruno Conti e Paulo Roberto Falcao, giocatori della Roma che magicamente vedevamo combattere con maglie differenti. La partita cominciò a sorprenderci al 5° minuto, quando segnò il piccolo Paolo Rossi di testa, ma tutto rientrò nella logica delle cose al pareggio di Socrates, sette minuti dopo. I Brasiliani però non chiudevano la partita, come tutti ci aspettavamo. E poi Rossi segnò nuovamente, e l’Italia cominciò ad alzare un muro a difesa di quell’eresia. Un muro composto dalle gambe e dalle teste coriacee di Oriali, Gentile, Cabrini, Scirea e di uno Zoff in stato di grazia.
Quando vedemmo le due squadre andare negli spogliatoi con l’Italia in vantaggio non riuscimmo neanche a commentare. Il Brasile ci mise più di venti minuti del secondo tempo per pareggiare, con Falcao. Poi, dopo solo sei minuti, il terzo gol di Rossi riportò l’Italia in vantaggio. La cronaca dei successivi venti minuti fu quella di un assedio disperato, un assalto all’arma bianca, il tripudio assoluto di Zoff che salvò il risultato sulla linea di porta, al 90°.
Un minuto dopo il quartiere letteralmente deflagrò.
I balconi dei palazzi stipati di persone urlanti, le strade percorse da cortei spontanei, un coro di clacson, mille tricolori al vento apparvero dal nulla. Alcuni di noi ne approfittarono, più o meno consapevolmente, per buttarsi a corpo morto sulle compagne di classe. Fermamente respinti, scivolando su un fiume di adrenalina scendemmo in strada, dove sconosciuti si abbracciavano e altri urlavano: “tutti a Piazza Venezia, tutti a Piazza Venezia!”
Ci guardammo e senza neanche parlare ci unimmo a quella massa cieca. Incuranti della distanza ci dirigemmo compatti verso il fulcro della città, che ben altre adunate oceaniche aveva dovuto subire in un passato tutto sommato vicino. Via Nomentana era letteralmente intasata di automobili straboccanti di tifosi. Avevamo tutti la stessa faccia. Non credo di aver visto nessuna macchina con meno di sei-sette persone a bordo. Le Fiat 500, comunissime allora, sembravano bomboniere stracolme di corpi, per lo più malamente estroflessi attraverso l’apertura delle loro piccole capote.
Superata Porta Pia, col basamento del Bersagliere presidiato da truppe tricolori di sbandieratori, salutati con sincero affetto e da un coro strozzato di clacson da ogni macchina di passaggio, giungemmo a Piazza Venezia. Un immenso tappeto umano, da Via dei Fori Imperiali a Via del Corso, dal Campidoglio a Via Cesare Battisti.
La folla non ragiona, forse per questo si chiama così, e la stessa radice latina di folle è follis, “pallone vuoto”. Famiglie intere, ragazzi e ragazze ondeggiavano avanti e indietro, sciamando fuori e dentro da quel cerchio, osservati in silenzio e con comprensibile fastidio dai due soldati di guardia alla tomba del Milite Ignoto, alla base dell’Altare della Patria. Le ore passarono, registrando nuovi arrivi da tutta Roma, in un ricambio continuo di persone. Incontrammo facce note del quartiere, ragazzi conosciuti come fasci e altri come compagni, le rispettive ideologie pacificate da quell’evento e comunque già in pausa estiva.
Verso l’alba l’età media si abbassò drasticamente, lasciando sul terreno una massa per lo più orizzontale, sdraiata ovunque sull’erba dell’aiuola centrale e sui sampietrini della piazza. Mi sembrò fosse scesa una relativa pace, quando qualcuno concentrò le sue energie cerebrali è urlò: “ahò, sò ‘sciti i giornali, so ‘sciti i giornali, annamo a Via Veneto a prende i giornali!”
Ci intruppammo naturalmente nel nuovo corteo, che risalì via del Tritone e giunse rapidamente a Piazza Barberini. All’angolo di Via Veneto addetti del Corriere dello Sport distribuivano gratis le prime copie, fresche di stampa. Dopo tante ore passate a festeggiare l’incredibile, senza alcun riscontro esterno se non quello delle poche radioline portatili, la prima pagina del Corriere ci diceva chiaro e tondo che era tutto vero.
Il titolo era semplice, diretto, e condensava in una frase lo stupore di quella giornata e la sensazione, quasi il timore di aver infranto un tabù: “3-2, IL BRASILE SIAMO NOI”.