Studiare di notte

Quella sera ero l’unico sveglio in casa. I miei dormivano, così come i miei due fratelli. Un quarto fratello viveva già altrove. Ero seduto al tavolo tondo del salone, studiavo. Mi era sempre piaciuto studiare la sera tardi o anche di notte, insomma quando tutti dormivano e non avevo fastidi e possibilità di distrazione.
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Devo fare una precisazione. Oggi bisogna immaginare una televisione che dopo una certa ora non offriva più nulla, bisogna immaginare l’assenza di internet, di computer e smartphone. Bisogna calarsi nell’atmosfera del 1980. La notte era perciò davvero uno spazio libero da tentazioni. Certo c’era la radio, la musica, gli amici. Per uno come me che viveva e vive di relazioni, un minimo di consapevolezza mi spingeva a isolarmi, per poter studiare con qualche risultato. Ero obbligato a stare in silenzio e quella autocostrizione mi garantiva la concentrazione di cui avevo bisogno.

Un gran botto, secco. Una fiammata. Le finestre alle mie spalle sono rosse. Il fuoco. Mi alzo di scatto e mi allontano. Non so che fare. Per fortuna le finestre sono chiuse e i vetri non si sono rotti, le fiamme non sono entrate in casa. Le tapparelle di legno però bruciano. Corro a svegliare mio padre. Mi guarda dal letto con il viso incredulo, poi si alza e corre in salotto, mia madre dietro. Osserva la finestra e mi ordina, secco, “stacca le luci”. Non dice spegni, dice stacca, per cui non capisco (capirò dopo). Senza capire cosa faccio stacco la presa multipla dello stereo che è lì poco distante. Lui si precipita in giardino, lo seguo correndo.

Una bottiglia molotov ha colpito finestra e portafinestra, le tapparelle hanno protetto i vetri e ora bruciano. Fumo denso, brucia il flatting che abbiamo steso con gran fatica qualche mese prima. Una seconda bottiglia ha centrato una piccola catasta di legna a ridosso del muro di cinta che ci separa dal giardino della scuola adiacente, su via Romagnoli, ad un passo dal bar lo Zio D’America, il cuore nero di un quartiere nero. Noi, piccola isoletta democratica, due genitori rappresentanti scolastici della lista “Genitori democratici”, figli impegnati, a vario titolo. Bersaglio fin troppo facile, adatto a menti vigliacche.
Mio padre ha fatto la guerra, non si scompone più di tanto, o forse reagisce in automatico. Mi urla di non espormi, corre a prendere la pompa dell’acqua e in breve tempo spegniamo i due fuochi. E’ stato tutto molto veloce; uno dei fratelli si è svegliato, l’altro non si è reso conto di nulla. Mio padre rientra in casa velocemente e spegne le luci, ora capisco, aveva paura che ci sparassero. Siamo al buio, riprendiamo fiato.

Una domanda mi pulsa in testa, violenta. E sono certo pulsi in testa anche a mia madre, glielo leggo negli occhi. Cosa sarebbe successo se non fossi rimasto sveglio quella sera? Nessuno aveva sentito le bottiglie rompersi, tranne me, che ero a un metro. Il fuoco avrebbe avuto il tempo di scivolare in casa, attraverso il celetto di legno delle tapparelle? In quel caso avrebbe attaccato le tende e il fumo avrebbe invaso le stanze. Forse questo ci avrebbe svegliato, ma correndo in salotto ci saremmo trovati di fronte uno spettacolo ben diverso.
Ma per fortuna ero sveglio, a studiare. E neanche per il giorno dopo, perché quel giorno appena iniziato era festa nazionale e le scuole sarebbero state chiuse. Le bottiglie erano volate esattamente alla mezzanotte tra il 24 e il 25 Aprile. Qualcuno aveva deciso di celebrare quella sconfitta così.


Marco
Un mio ricordo del 25 aprile 1980
(nella foto, le sbarre che mettemmo dopo)