Mese: dicembre 2020
In attesa del Natale fermentavamo scrivendo liste enormi di regali
Ovvero… il Natale visto da un banco della scuola Elementare Alcide de Gasperi.

Roma, 7 Gennaio 1971
Tema: Come ho trascorso le vacanze di Natale.
Mi sono divertito molto nelle vacanze di Natale e ho fatto molte amicizie, c’erano tanti bambini e ragazzi simpatici fra cui un certo Marco (come me) che aveva almeno undici anni e (vi assicuro) è davvero molto simpatico e spiritosissimo.
Con lui mi sono molto divertito. Quando si decideva dove andare per sciare io ero sempre deluso ma poi mi piaceva molto il posto. Io sono andato in molti posti: alle Gravare, al Pratello, all’Aremogna, ma la gita che mi è piaciuta di più è quando sono andato alle Toppe del Tesoro.
Io sono andato in queste Vacanze di Natale in: bidonvia, seggiovia, cabinovia, schilift, ma la peggiore di tutte queste è di certo la manovia.
Però ci si divertiva molto anche nell’albergo, nell’albergo si leggeva, si guardava la televisione, si giocava (soprattutto a carte).
Quando si girava per Roccaraso (però dove c’era la neve), io mi interessavo alle tante orme che si vedevano sulla neve (di animali).
(voto: 8) – Maestra Mazzetti

Roma, 13 Dicembre 1971
Tema: Preparativi per le feste Natalizie
In giro si nota molto l’atmosfera di Natale, che Natale si avvicina sempre di più, e ho visto che pure nei cantieri (anche se piccola) qualche abbelizione c’è.
E poi nei negozi si vede che pure lì si aspetta Natale e poi sono pieni di giocattoli pronti per noi.
Vicino alla mia casa c’è la Standa che è piena di palle colorate da comprare oppure da non comprare, che vuol dire che le hanno messe lì per abbellire.
Pure nelle case e nelle scuole come la nostra abbiamo abbellito con delle decorazioni di Natale e poi abbiamo fatto l’albero di Natale.
Siamo tutti molto contenti.
Adesso nella nostra classe si fa il Presepe, ma non un Presepe con i pastori e altra roba comprata, ma con della roba fatta da noi e quindi colorata.
Nei fiorai come quello davanti al Viale Jonio non ci sono più fiori, ma alberi di Natale.
L’arrivo del Natale si capisce pure dal temperamento. Adesso la gente va ha sciare nei posti freddi e lontani oppure nei posti (sempre freddi) ma vicini.
Nei grandi negozi come la Standa e l’Upim si vendono giacche a vento o sci e racchette. Mi ricordo che la prima maestra che ho avuto, quando sbagliavo a sciare (perché era una maestra di sci) mi chiamava con rabbia: <<Mirco!>> perché era Tedesca.
Questo mese per me è pieno di feste ma quella che sento di più è il Natale. Questo mese per me è pieno di feste perché c’è: la mia festa, quella di mio fratello e la vigilia di Natale, Natale, San Stefano, che è l’onomastico di mio cugino, e Capodanno.
In casa mia la roba di Natale è ancora in cantina, ma presto la tireremo fuori.
Vicino a casa mia c’è la Standa e vicino alla Standa c’è un palazzo, anzi, molti palazzi e vicino ai palazzi ci sono dei pini, così certi ingegnieri hanno attaccato delle grosse decorazioni di Natale che consistevano in una luna di sughero e una Befana e un Babbo Natale che con una astronave tutti e due atterranno con dei doni.
(voto: 7) – Maestra Mazzetti

Roma, 18 Dicembre 1972
Tema: In attesa del Natale
Io, e anche gli altri da piccoli in attesa del Natale fermentavamo scrivendo liste enormi di regali.
Noi allora il Natale ce lo vedevamo così:
– L’albero abbellito pomposamente che scintilla di mille colori, ai suoi piedi migliaia di regali incartati di carte splendenti.
Poi si passa a l’apertura dei regali, e allora tu lanci grida di gioia vedendo il regalo che desideravi da tempo e intorno tutta un’aria di gioia e felicità insieme.
E a dir la verità io e anche gli altri ce lo vediamo così ma se noi, però lasciamo quel modo di festeggiare il Natale e cerchiamo il vero significato del Natale (siccome noi ormai siamo grandi possiamo capire il vero del Natale, quella ricorrenza dell’avvenimento avvenuto duemila anni fa: La nascita di Gesù).
Certo per noi la nascita di Gesù è stato un beneficio e quindi quando noi lo festeggiamo dobbiamo divertirci.
Ieri, a messa, è venuto un ragazzo della parrocchia. Ha fatto un discorso che mi ha colpito, parlava di noi che ci chiudevamo nel nostro egoismo non pensando agli altri, e poi alle persone misere, povere, che per loro il Natale è un giorno come gli altri, anzi, forse più triste e angoscioso degli altri giorni perché al vedere passare tanta gente felice, piena di regali mentre loro sono ignorati da tutti.
Quel ragazzo era molto bravo ed ha parlato che lui e altri compagni lavoravano per guadagnare soldi e spedirli in Mato Grosso e altri posti.
Poi, ha concluso il suo discorso dicendo: non vi voglio rovinare il Natale ma pensate anche a loro. A me il Natale non me lo ha rovinato.
Buon Natale.

La logorroica

60 EXPRESS, VIA NOMENTANA, DIREZIONE PORTA PIA
30 ottobre, ore 9:00 circa, giornata autunnale, di quelle che la mattina fa un po’ freddino, ma lo sai che dopo mezzogiorno sentirai caldo. Giunti di fronte all’ex Cinema Teatro Espero, l’autobus è già piuttosto pieno.
Le vedo alla fermata, due donne che parlottano, una più anziana e bassina, sui settant’anni, vestito e capelli grigi, occhiali; l’altra sui cinquanta, leggermente più alta, bionda tinta. La più anziana tiene la più giovane per un braccio e la trascina di peso verso la porta centrale. Riescono a entrare, scavalcando una decina studenti universitari insonnoliti e rinunciatari. Sgomitando e spintonando senza pietà chiunque si trovi sul loro percorso, raggiungono la parte anteriore dell’autobus, all’altezza dell’emettitrice di biglietti. Durante tutta questa operazione, la donna più anziana non smette mai di parlare alla più giovane, neanche stesse tenendo una dettagliata radiocronaca della loro impresa. Si piazzano accanto a me. L’anziana si guarda intorno a studiare la situazione.
– Bene, allora ti dicevo… – riprende, dopo una breve pausa.
È una macchinetta. Apparentemente senza respirare, parla con chiarezza e rapidità. Per fortuna, in tono basso, quasi confidenziale, snocciolando parole al ritmo di una mitragliatrice. La sua interlocutrice annuisce in continuazione, cercando di inserirsi di tanto in tanto. L’anziana glielo permette, ma concedendole il minimo indispensabile di repliche, poco più che fonemi ad accompagnare i segni di assenso. In questi brevissimi momenti, la fissa dritta negli occhi, tenendole una mano sopra un braccio e annuendo con gravità, quasi a dirle: “So cosa pensi, so cosa stai per dire, so tutto, ti ho creata io”. Poi ricomincia il fuoco di sbarramento di lettere, parole, frasi, periodi, racconti, il tutto infarcito di citazioni testuali delle persone di cui s-parla, espresse con le vocine giuste, a volte stridule, a volte sgradevolmente infantili, a volte volgari. Cerco di astrarmi nella lettura, ma faccio fatica. L’argomento ora è di quelli potenzialmente infiniti, le relazioni tra condomini. Frammenti di discorsi affiorano e mi raggiungono in continuazione, rimbalzando sulle pagine del mio libro come pezzi di un puzzle confuso, sebbene riconoscibile. – Non esce mai sul balcone… lei non lo sa… lui… rotazione dei posti auto… torna troppo tardi ed esce prestissimo… lettera all’amministratore… quella poi, si veste come… non mi far parlare, va!
Mi fa sempre sorridere quando i grandi chiacchieroni infarciscono la loro messe di parole con la frase: “Non mi far parlare”, oppure: “Famme sta’ zitto, sennò…”. Ogni volta mi torna in mente L’Esorcista, la terribile scena in cui appare, sul corpo posseduto e stravolto della protagonista, la frase HELP ME, formata da bolle in rilievo. La richiesta di aiuto è diretta all’esorcista, che però non può intervenire, oppure è un ennesimo inganno del diavolo? Così è per coloro che si trovano a contatto con questi professionisti della parola: ogni rivelazione si apre con le stesse frasi di rito, come “Fammi stare zitto”, quasi a voler dire: “Io ci provo, ma tu non mi aiuti”. E via verso nuovi torrenti di parole, mani sulle braccia, sguardo ipnotico, piogge di vocali, uragani di consonanti. L’anziana è già al quarto argomento, quando, alla fermata di Viale Regina Margherita, una donna seduta di fronte a me, si alza per scendere dall’autobus. L’anziana mi guarda e mi fa cenno di sedermi. Naturalmente le cedo il posto, e lei, mentre si accomoda, mi sorride con aria complice e chiama a sé la sua amica. Le chiacchiere riprendono, più fitte di prima. Arrivati a via XX Settembre mi avvio verso la porta centrale. La donna parla ora di catechismo e di riunioni settimanali in parrocchia. Tendo l’orecchio.
– E quindi, capito? Ci vediamo, parliamo… parliamo del Vangelo o delle cose che il prete ci propone. L’ultima volta ci ha chiesto di trovare a noi argomenti di discussione. Dal Nuovo Testamento, capito? Insomma, dobbiamo scegliere a turno una parola-chiave e parlarne tutti insieme. L’ultima volta è toccato a me, ne ho scelta una che mi piace proprio – continua fissando compiaciuta l’amica. Tira un sospiro: – L’ASCOLTO – dice rapita e, senza interrompersi, prosegue di filato: – Che ne pensi? Perché, sai, io credo che…
…….
Da “Non date i soldi a Mike Tyson” – 18 dicembre 2019

We have all the time in the world

Molto spesso accade che una canzone si leghi ad un ricordo. E il ricordo è sempre legato ad una emozione, è una emozione. E la canzone diventa così evocativa e detiene il potere di risucchiare all’esterno e riportare in superficie sensazioni forti, che una volta all’esterno non sempre trovano un terreno facile sul quale essere rivissute, soprattutto se generate molti anni prima.
Una delle “mie” canzoni è We have all the time in the world. Il testo è di Hal David, uno dei maggiori songwriters degli Stati Uniti, grande collaboratore di Burt Bacharach. La musica è del prolifico John Barry, autore, fra i tanti, del famosissimo James Bond Theme, uno dei più conosciuti Jazz tunes, il famoso “Dum Di-Di Dum Dum” presente in tutti i film di James Bond. Interpretata dalla voce, splendida, di Louis Armstrong, era stata scelta come tema musicale secondario di un film di Bond, On Her Majesty’s Secret Service, del 1969, interpretato da Roger Moore.
Per qualche insondabile motivo, qualche autore RAI illuminato l’aveva utilizzata come sigla di coda di un’altrettanta illuminata scelta, quella di inserire nel palinsesto della “TV dei ragazzi” la visione di un film delizioso nel suo genere e confezionato come solo la Hollywood dell’epoca sapeva fare. Il film era “Viaggio al centro della terra” del 1959, tratto con numerose libertà dal meraviglioso romanzo di Giulio Verne, come l’abbiamo conosciuto a scuola, pensando fosse uno scrittore Italiano, diretto da Henry Levin e interpretato da un cast di richiamo, dove spiccavano James Mason e Pat Boone.
Il film, sezionato a puntate trasmesse di pomeriggio, a cadenza settimanale, era destinato ad imprimersi nel mio immaginario per sempre, generando, per anni, giornate intere di eccitanti fantasticherie e sogni a colori, ad occhi chiusi e aperti.Ai miei occhi di bambino nulla poteva essere più interessante. Un gruppo di uomini temerari, guidati da un professore di Edinburgo, Oliver Lindenbrook (James Mason), decide di scendere nelle profondità della Terra, attraverso un crepaccio nel cratere Jökull del vulcano Snæffels in Islanda. La spedizione comprende l’assistente di Lindebrook, il giovane Alec McEwen (Pat Boone) in realtà un ragazzo pieno di ormoni, più interessato alle ragazze che alle scoperte scientifiche, il biondo Hans Belker, un ragazzone Islandese dall’aria un po’ stupida e che non si separa mai dalla sua oca Gertrude, un professore rivale, il perfido conte Saknussem, che i nostri incontrano nelle profondità della Terra, e infine una donna, Carla Goetaborg, che finirà per amoreggiare con il Prof. Lindenbrook.

Inutile dire che per me i personaggi più affascinanti erano Lindenbrook, a suo modo Saknussem e la coppia Hans con l’oca Gertrude. Lo stupore e la passione di Lindenbrook per le continue scoperte erano le mie. La presenza della donna (che nel romanzo non partecipava all’impresa) non la capivo e mi infastidiva, anche perché si metteva continuamente in pericolo, costringendo i nostri a salvataggi continui. La tolleravo come corollario marginale al mondo fantastico che si apriva agli occhi dei miei eroi: foreste di funghi giganti, diamanti grandi come colonne, enormi draghi minacciosi, tartarughe giganti, piccoli laghi e cascatelle, e un immenso mare sconvolto da venti impetuosi e tempeste magnetiche.
La fuoriuscita da quel mondo così meraviglioso ma minaccioso avveniva infine, come se non bastasse, attraverso una quisquilia come la scoperta dell’antica città di Atlantide e la risalita attraverso il vulcano Stromboli! I nostri, provenienti dall’Islanda, risalgono il vulcano sospinti miracolosamente da un fiume di lava e vengono catapultati nel Mare Nostrum, senza un graffio. L’unico che non tornerà in superficie sarà il rivale conte Saknussem, che troverà una morte accidentale a punirlo della sua malvagità. I colori del film erano brillanti, lucidi, intensi. Ai miei occhi di bambino il Mondo, al di sotto dei miei piedi, sembrava ora bellissimo e affascinante. I vulcani, che sempre mi avevano affascinato, apparivano ora molto più comprensibili. Là sotto c’era la vita, mari, fiumi, energia, animali e piante preistoriche e tutto questo poteva trovare una via di comunicazione con l’esterno, attraverso i vulcani, disseminati, era evidente, in punti strategici della Terra.

Inutile dire che ogni puntata era troppo corta. La conclusione, l’apparire dei titoli di coda e la sigla finale mi provocavano una tempesta di insoddisfazione e sottile rabbia. Una amarezza che chiunque è stato bambino conosce bene. Questa si condensava nel comportamento più ovvio e scontato, l’aggrapparsi agli ultimi minuti di quell’appuntamento tanto atteso e desiderato, l’ascolto concentrato e rapito della sigla di chiusura, la voce roca e nasale di Satchmo. A risentirla ora, non sembra una canzone adatta ad un film così, in una collocazione di quel genere. Ma forse era anche questo il suo fascino. Rendeva solenne quel momento, era in fondo un elemento di considerazione per un pubblico di bambini, poco abituato a quel genere di musica, ma senz’altro degno di momenti di qualità come quello. Mi sentivo grande a vedere un film interpretato da attori grandi, grande ad ascoltare un pezzo come quello.
Quel tipo di emozione, negli anni, ha trovato altre strade, altri modi di manifestarsi, altri contesti, altri temi musicali, altri sfondi e riferimenti. Ma ascoltare quella canzone, ancora oggi, mi regala una sensazione così personale e intima; le corde che ogni volta tocca vibrano a lungo, in un modo che ancora oggi fatico a descrivere, forse perché non ho più il vocabolario adatto per farlo.
Marco Tosi
La nave

Ora che sono vecchio e ho più tempo per fermarmi e ricordare, sento che è giunto il momento che io racconti una delle incredibili avventure che ho vissuto. Non vi chiedo di credermi, solo di ascoltarmi. Anche se non riuscirete ad accettare che ciò che udrete l’abbia vissuto davvero, serbate con rispetto questo racconto nei vostri ricordi.
Mi avrete già sentito parlare di un uomo che tutti chiamavano il Capitano Triste.
Conobbi quell’uomo nel porto di Liverpool, nei primi anni dell’Ottocento. È di lui che vi voglio parlare e di come mi ha cambiato la vita.
Era un uomo taciturno, molto alto e magro. Portava sempre un lungo pastrano grigio e un cappello di quelli in uso sulle navi mercantili. Fumava in continuazione, da una pipa chiara, di schiuma. Il fumo azzurro che lo circondava era una sorta di filtro che lo proteggeva dagli sguardi.
Quando ti parlava ti fissava dritto negli occhi, anche se non sempre te ne rendevi conto. Se il vento allontanava il fumo o gli alzava per un attimo la tesa del cappello, allora potevi scorgere i suoi occhi, piccoli, azzurri, penetranti come diamanti grezzi, e ti sentivi perforato fino alla nuca. Ti sembrava che il cervello fosse penetrato, sondato, assimilato e rilasciato privo di forze e segreti.
Si diceva avesse il potere di controllare le persone e trasformarle in ciò che voleva. Si dicevano molte cose di lui, come sempre fa la gente nei riguardi di chi vive in solitudine. C’era chi sosteneva fosse vedovo e avesse molti figli, sparsi per il mondo, chi diceva che fosse stato lasciato dalla donna che amava perdutamente, chi diceva che l’avesse uccisa e fatta sparire.
Quando non era in mare, quindi per poche settimane l’anno, alloggiava nella Locanda del Bue Marino, la migliore della città bassa, all’ultimo piano, quello delle mansarde. Non parlava mai con nessuno, non riceveva visite. Consumava i suoi pasti in orari diversi dal resto degli avventori, spesso in una saletta riservata, quella destinata ai clienti fissi. A volte non cenava e rimaneva chiuso nella sua camera fino al giorno dopo. Talvolta dormiva fuori e rientrava la sera seguente. Tutti i giorni si recava alla sua imbarcazione, nella parte più isolata del porto.
Io ero poco più di un ragazzo allora, e frequentavo il porto come molti miei coetanei, in cerca di lavoro, di novità, di futuro, di avventura. Ero uno dei tanti. Ogni mattina ero al molo, a caricare e scaricare le navi in arrivo o in partenza. Quando non lavoravo, trascorrevo le mie giornate a guardare gli altri che lo facevano al posto mio.
Comunque fosse andata, alla fine della giornata mi lavavo la faccia, riordinavo il vestito, l’unico che avevo, mi infilavo le scarpe e salivo le lunghe scalinate che separavano il porto dalla città alta. Raggiunto il corso principale, mi accoccolavo in un angolo, ad osservare la vita che scorreva in superficie, sulla crosta buona della città: le ragazze a passeggio, le carrozze, i cavalli, i soldati,gli ufficiali in alta uniforme, i commercianti di tabacco, indaffarati a fissare i prezzi e fare affari.
Poi, al tramonto, raggiungevo la fabbrica dismessa alla periferia est, oltre la zona ferroviaria. La vecchia Manifattureria Bolton, abbandonata da anni. Come centinaia di coetanei, avevo il mio piccolo rifugio in quell’alveare umano, fetido e buio. Un letto di assi di legno e un materasso di paglia, incastrato tra due muri. Una tenda fatta con una vecchia vela mi proteggeva dagli sguardi mentre dormivo, un occhio aperto e il coltello nella mano destra, sotto il cuscino.
Dietro la parete esterna avevo posto un piccolo secchio, a raccogliere l’acqua piovana. La mattina mi lavavo il viso che era ancora buio e mi incamminavo verso il porto, prima che si svegliassero gli altri. Arrivare primi poteva voler dire mangiare, secondi digiunare.
Una mattina giunsi al molo che le navi più grandi non avevano ancora tirato fuori i ponti mobili. La nebbia era molto fitta e la luce dell’alba faceva fatica a filtrare. Sembrava che la nebbia fosse lì per dire no, oggi nessuno lavora, oggi è un giorno diverso. Attraverso quella barriera impalpabile, si potevano solo indovinare le sagome scure e immense dei bastimenti all’ancora. Indifferente alla nebbia, il rumore sordo del legno, i suoi schiocchi, i suoi lamenti e urli, il canto del rollio degli scafi, lo sciabordio dell’acqua, la sinfonia delle catene tese e sopra ogni cosa lo stridio di centinaia di gabbiani.
Sentii un piccolo borbottio dietro di me, una mano, grossa e pesante, sulla mia spalla destra. Era il Capitano Triste. Mi diede uno sguardo intenso che mi sembrò volesse dire non avere paura, seguimi, ho fretta. Ero paralizzato. Camminò a lungo, senza voltarsi. Giungemmo di fronte ad una piccola imbarcazione, che non avevo mai notato. Sembrava molto vecchia, e in pessimo stato. Aveva qualcosa di lugubre. Era la sua nave.
Si voltò e mi fece segno di salire a bordo. Con riluttanza, lo seguii. Il legno del ponte scricchiolava così forte che temetti di sprofondare ad ogni passo. Se dal molo il suo aspetto aveva un che di lugubre, vista da vicino la nave faceva paura. Trasmetteva un senso di angoscia e terrore, come se all’interno fossero stati commessi crimini terribili, versato sangue, praticata la tortura. Gli scricchiolii parevano proseguire anche se stavamo fermi. A sentirli bene, sembravano lamenti, gemiti di qualcuno o qualcosa che non trovava pace, che chiedeva aiuto. Avvertii, improvviso, il bisogno di piangere, di unirmi a quel coro di morte, e un attimo dopo, il desiderio di fuggire. Feci per andarmene, ma Capitano Triste mi trattenne, stringendomi un braccio. Mi sentii svenire.
Quando mi svegliai, eravamo al largo. Mi ritrovai disteso su una branda, all’interno di una cabina angusta. Accanto a me, su un piccolo tavolo, del pane e una brocca di latte. Il silenzio era totale. La nave era ferma, oppure procedeva con estrema lentezza. Doveva essere il primo pomeriggio, il sole non era molto alto. Da un piccolo oblò potevo scorgere solo mare, blu scuro, quasi fermo. Mangiai e salii all’aperto. Ad un primo sguardo il ponte era deserto. I gabbiani volteggiavano sopra l’imbarcazione ma non si sentiva alcun grido. In assoluto silenzio, osservavano me, mentre io osservavo loro. Mi diressi allora verso prua, aggirando da destra la cabina di comando. Il silenzio era denso, come una colata di melassa pronta a assorbire ogni suono e ad annullarlo in sé. Improvvisamente il vento cambiò direzione e sentii un odore forte, acre, nuovo. Mi avvolse e stordì, facendomi vacillare sulle gambe. Dovetti appoggiarmi a delle botti per non cadere.

Fu in quel momento che udii nuovamente quei gemiti; a tratti penetranti, come se qualcuno mi urlasse nell’orecchio, a tratti rarefatti, come una eco lontana. Provai ancora un improvviso, intenso desiderio di piangere e urlare, mi rannicchiai su me stesso e chiusi gli occhi. Di nuovo silenzio intorno a me; sentii chiaramente che non ero solo.
Aprii gli occhi: per quello che vidi sul ponte, ancora oggi, faccio fatica a trovare le parole.
La nave mi guardava.
Non sarei stato in grado, in quel momento, di descrivere così le mie sensazioni, ma ne ero certo, mi stava osservando. Poi, alzai una mano a ripararmi dal sole e li vidi. A prua, seminascosti dal sartiame, due grandi occhi, incastonati nel legno scuro, mi fissavano. Uno sguardo triste e profondamente consapevole.
Prima che potessi dire o fare alcunché, gli occhi si chiusero e riaprirono, muovendo due grandi e sottili ciglia. Ero terrorizzato, come mai ero stato prima, la nave lo sentiva.
Fermo, non ti muovere. Non temere. Non ti farò del male – una voce calda e profonda, di donna – Comportati come sai fare, da marinaio. Fai il tuo lavoro e non chiederti altro. Non tornare più a prua. Ora vai.
Mi resi conto che la voce la sentivo, ma percepivo anche il silenzio, ovunque intorno a me; la voce era dentro di me, nei miei pensieri. E li leggeva.
– Ti ho detto, marinaio, non farti domande. Non capiresti – e dopo una pausa – e se tu capissi, moriresti. Dimenticami. Vai, ora!
Giunto a poppa, vidi il Capitano Triste. Accanto a lui, altri quindici marinai, intenti a ricevere istruzioni. Mi fissò con rabbia e mi aggredì: – Dov’eri, bastardo? Sono due giorni che dormi! L’hai portata tu questa bonaccia? Se è così giuro che ti butto ai pesci, avanzo di fogna! – Non feci in tempo a replicare – Da dove vieni, verme? Sei stato a prua? – mi fulminò con lo sguardo.
– No – replicai – Vengo dalla cabina, lo giuro! – Gli altri uomini mi osservarono, poi si volsero a guardare il Capitano Triste, che restò muto per qualche istante, scrutandomi. – Sai che nessuno, per nessun motivo deve recarsi a prua, tranne il sottoscritto? La nave è governabile lo stesso. Stai attento a questo comando, ragazzo, o assaggerai la mia frusta.
Gli altri marinai erano tutti molto giovani, come me, tranne un paio, che mi fissavano seri. Furono gli unici due con i quali non feci amicizia. Non parlavano mai, neanche fra loro.
Ebbe inizio così un lungo viaggio. Solcammo tanti mari e toccammo molte terre, e in ognuna scaricammo e caricammo merce di ogni genere. Quando ci fermavamo per qualche giorno, la nave non attraccava, preferendo fermarsi alla fonda appena fuori dal porto. Non ricordo di aver mai visto Capitano Triste scendere a terra.
Non tornai più a prua.
Finito quell’imbarco, preferii cambiare città e lavoro, trasferendomi a Manchester. Non ho mai raccontato a nessuno, prima d’ora, quanto vidi e sentii quel giorno. Non ho mai più sentito parlare del Capitano Triste e non ho mai più provato quella sensazione di intensa tristezza e disperazione, quel desiderio così profondo e impellente di prendermi la testa fra le mani e piangere.

(pubblicato il 25 luglio 2019 su Ventimilabattute sotto i mari – Grandecomeunacittà.org)
È TEMPO DI FANTASCIENZA

Qui di seguito un bellissimo ed esaustivo intervento di Carlo Pauer, pubblicato sul sito Grandecomeunacittà.org il 10 dicembre 2019.
Il nostro Tempo
Tutti gli anni, per trentuno giorni, miliardi di messaggi, mail, documenti, calendari, segnano il mese di Luglio. Probabilmente, la quasi totalità degli umani ignora o ha dimenticato che il nome deriva da Iulius, cioè Gaius Iulius Caesar, il Conquistatore delle Gallie, il primo a essere ricordato nella storica ricostruzione cronologica del popolare De vita Caesarum (Vite dei Cesari) di Svetonio. Fu, infatti, il futuro e sventurato protagonista dell’omonima tragedia di Shakespeare a promulgare il “calendario giuliano” nel 46 p.e.v. tuttora in uso con il mese della sua nascita che ne porta il nome. L’Ordine del Tempo nel mondo antico era appannaggio delle divinità e con questa consapevolezza Cesare, secondo Plinio il Vecchio (Naturalis historia), chiede l’intervento dell’astronomo greco Sosigene di Alessandria per approntare una revisione:
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1980, Roma, New York

Un anno che segna irrimediabilmente molti miei coetanei, io fra loro.
Due anni dopo l’omicidio Moro (09 maggio 1978), la realtà nella quale i miei amici ed io ci troviamo è – lo pensavo già allora, lo penso ancora oggi – una realtà che ti toglie la voglia di vivere, di studiare, di capire, di lottare, persino di amare. Lo so bene, frequento il Liceo, ho diciassette anni.
La scia di sangue viene da lontano, e già l’anno prima è entrata nel mio quartiere, Montesacro/Talenti. Quel serpente velenoso si materializza il 10 gennaio del 1979 con l’omicidio di Stefano Cecchetti, mio compagno di scuola alle Medie, ragazzo non politicizzato, raggiunto da proiettili sparati da un’auto in corsa (che coraggio, compagni!) solo perché chiacchiera con un paio d’amici fuori da un bar considerato di destra. Un bar a duecento metri da casa mia. Stefano, perso nel rumore di fondo, come quando tiri un piccolo petardo in un vicolo, alle 24.00 del 31 dicembre.
Il 1980 si apre con una serie di morti ammazzati. Il giorno dell’epifania, il 06 gennaio, la mafia uccide a Palermo Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia. E’ appena entrato in macchina con la moglie e i due figli, per andare a messa. Tra i primi ad accorrere sul posto, il fratello minore, Sergio. Il 06 febbraio il serpente torna a Roma, i NAR uccidono Maurizio Arnesano, poliziotto Salentino di 19 anni, per rubargli il mitra. Il 12 febbraio le Brigate Rosse uccidono Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, freddato alla Sapienza, sulle scale della facoltà dove insegna. Accanto a lui una giovane assistente, Rosy Bindi.

Sempre a Roma, dieci giorni dopo (22 Febbraio), viene ucciso a casa un mio compagno di scuola, Valerio Verbano, militante di Autonomia Operaia. Seppure su differenti sponde politiche, è qualcuno che considero un mio compagno e quando capita ci si confronta, si parla. Le modalità del suo omicidio sono crudeli, in modo inimmaginabile. Colpito in ingresso, appena rientrato da scuola, il pranzo caldo in tavola, di fronte ai genitori legati e imbavagliati sul divano. Figlio unico. Quando entra in casa e urla “sono a casa!” si stupisce che nessuno gli risponda, intuisce qualcosa, fa per uscire ma è troppo tardi.
Tre giorni dopo, nel giorno del suo diciannovesimo compleanno, si tengono i funerali, al Verano. Coi miei compagni di scuola siamo lì, e quel giorno conosciamo per la prima volta l’ottusa violenza dello Stato. Nonostante i tentativi di mediazione di Marco Pannella, Emma Bonino e altri parlamentari, la Questura vieta un corteo che è già partito e fa caricare i manifestanti, fin dentro il cimitero.
Nei giorni successivi ne parlo coi miei amici, sappiamo bene che la risposta ci sarà, la logica è quella. La mattina del 12 Marzo alcuni militanti di sinistra, travestiti da infermieri, escono da un’ambulanza e freddano sotto casa un militante di Destra molto noto nel quartiere e in tutta Roma, Angelo Mancia. Questo accade esattamente di fronte al mio liceo. Mancia sta inforcando il suo motorino per recarsi al lavoro, presso il Secolo d’Italia.
Il 19 marzo 1980 si dimette il governo presieduto da Francesco Cossiga (Democrazia Cristiana). Il 28 marzo i carabinieri fanno irruzione nel covo genovese delle Brigate Rosse, uccidendo quattro brigatisti. Cossiga presenta un nuovo governo il 5 aprile.
Il 14 aprile muore a Roma Gianni Rodari, 59 anni.

Il 25 aprile il serpente arriva addirittura a casa mia. Allo scoccare della mezzanotte due bottiglie molotov raggiungono le finestre del salotto, e le persiane di legno prendono fuoco. Devo alla mia abitudine di studiare dopo cena (ho bisogno di silenzio) la salvezza mia e della mia famiglia. Sveglio mio padre e insieme spegnamo senza difficoltà le fiamme, con il tubo per innaffiare il giardino. Una famiglia di sinistra a pianoterra, nel cuore di un quartiere nero, un obiettivo facile.
Il 28 maggio il giornalista Walter Tobagi esce di casa a piedi, porta la figlia all’asilo. Viene ucciso da alcuni militanti di estrema sinistra della brigata “XXVIII Marzo”, un nome che si rifà direttamente ai fatti di Genova, di appena due mesi prima. Quello stesso giorno a Roma viene ucciso dai NAR il poliziotto Francesco Evangelista, chiamato Serpico in riferimento al film del 1973, di fronte al Liceo Giulio Cesare.
E intanto Roma è inondata di eroina. Due miei compagni di scuola, Alberto e Letizia, muoiono di overdose. Entrambi bellissimi. Solo quel giorno scopro che si fanno.
Meno di un mese dopo, il 23 giugno, a Viale Jonio, sempre nel mio quartiere, un uomo è in attesa alla fermata dell’autobus, il 391. E’ in piedi, tiene una valigetta con la mano destra. Due ragazzi in moto raggiungono la fermata, uno dei due smonta dalla moto mentre l’altro lo aspetta, a motore acceso. L’uomo non li nota. Il ragazzo gli si avvicina da dietro, estrae una pistola e la punta alla nuca dell’uomo. L’uomo è il magistrato Mario Amato, 42 anni. Il ragazzo si chiama Gilberto Cavallini, 27 anni, l’amico si chiama Luigi Ciavardini, 17 anni e nove mesi, entrambi appartenenti ai NAR, Nuclei Armati Rivoluzionari. Ora in quel punto c’è un piccolo monumento e una lapide, e ogni 23 giugno il figlio Sergio, allora un bambino di sei anni, ricorda il padre.

Mario Amato, che indaga sul terrorismo nero, che ha ereditato le indagini del magistrato Vittorio Occorsio, ucciso dal fascista Pierluigi Concutelli, a viale Mogadiscio, quartiere Trieste, la mattina del 10 luglio 1976. Mario Amato, che ha chiesto inutilmente un’auto blindata, o almeno un autista, abbandonato dai suoi superiori, contigui alla destra eversiva (verità processuale, non mia).
Quattro giorni dopo il suo omicidio, un aereo della compagnia ITAVIA cade in mare nei pressi dell’isola di Ustica, 81 morti, nessun sopravvissuto. Si parla di un conflitto aereo tra MIG libici e aerei Francesi e americani, si parla di una bomba a bordo. Un botto enorme di cui non è opportuno parlare, ce ne vuole un altro più grande.
Il 02 Agosto mi trovo alla Stazione Termini, sul binario del treno per Lecce. Finalmente in vacanza! La situazione però è strana, i treni non si muovono. Ad un certo punto uno strillone del Paese Sera passa con un fascio di giornali sotto il braccio, urlando: “strage alla stazione di Bologna, 43 morti!” Mi viene da piangere. Tiro fuori 200 lire e ne compro una copia, non si sa molto. Poi, gradualmente, le notizie arrivano, il quadro si dettaglia meglio, i morti alla fine sono 85. Da quel giorno in poi, per anni, non si parla più di Ustica. L’obiettivo è stato raggiunto.
Ma a 17 anni vai avanti! Tante esperienze: in luglio in campeggio in Val d’Aosta, poi in autostop fino a Livorno e da lì in traghetto fino all’isola di Capraia, in campeggio libero. Poi di nuovo in autostop a Roma. E da lì in treno a Napoli, poi in traghetto fino alle Isole Eolie, su in cima fino alla bocca dello Stromboli e poi Vulcano, Lipari e la splendida solitudine di Filicudi, isola senza corrente elettrica nel cuore d’Europa. A settembre sono nuovamente a Roma.
E il 27 settembre si conclude l’esperienza del governo detto Cossiga bis. Il compito di formare un nuovo governo viene affidato ad Arnaldo Forlani (DC) che vara il nuovo esecutivo il 18 ottobre. Lotta fra correnti nella balena bianca.
Pochi giorni prima, il 30 settembre, una nuova televisione comincia a trasmettere, per lo più vecchi film e situation comedies. Si chiama Canale5, guidata da un imprenditore milanese per noi sconosciuto, un certo Silvio Berlusconi; si dice sia molto amico di Craxi.
L’autunno scivola verso l’inverno. Manca un mese a Natale. Il 23 Novembre la terra trema in Irpinia. Non so neanche dove sia. Nono grado della scala mercalli, interi paesi scompaiono. I morti, alla fine della conta, sono 2900. A scuola organizziamo un Centro di raccolta di coperte, cibi in scatola, medicine, anche giocattoli. La gente del quartiere collabora, porta di tutto. Un giorno, sistemando una coperta ci trovo dentro una boccetta di profumo. Un’esperienza toccante, una lezione di vita. E poi la scuola rimane aperta nel pomeriggio! Una novità enorme per noi, un punto di incontro nuovo, che non sia il solito muretto, sempre esposto alle intemperie e al rischio di una pistolettata. Ma non dura. Anche la solidarietà finisce, e il Centro chiude. In Irpinia continua a mancare di tutto. Vado, con una decina di amici, a donare il sangue al Policlinico, abbiamo letto che serve. La fila è lunghissima, commovente. Aspettiamo ore, seduti per terra, e alla fine giunge il nostro turno. L’infermiere che ci accoglie ci squadra, occhiaie e sguardo stanco: “ma ce l’avete diciott’anni?” Noi rispondiamo di no. “E allora nun potete donallo er sangue. Annate a casa”.
A casa, scopriamo di avere, finalmente, qualcosa di cui essere orgogliosi, un Presidente vero, capace di denunciare lo stato di abbandono nel quale versano i cittadini sopravvissuti dell’Irpinia, immediatamente declassificati a “terremotati”, una parola priva di dignità, una condizione quasi infamante, un marchio che in un Paese come il nostro ti può rimanere appiccicato per decenni.
“Annate a casa”..un luogo sicuro, dove ascolto la mia musica, che sta cambiando e cambierà, molto, con la new wave, il punk, solo qualche anno dopo. Ma non lo so ancora, il mio orizzonte è ancora quello di Guccini, De André, Finardi, De Gregori, Claudio Lolli, Pierangelo Bertoli, Pino Daniele e naturalmente i Beatles.
L’8 dicembre tocca a John Lennon, ai margini del Central Park. Il 1980 si chiude così.

Ma i mind games continuano.
La villa sul mare

Erano le nove del mattino di un sabato di ottobre, quando lo scampanellio della sveglia del vicino irruppe nel mio sogno, portandomi quasi allo stato di coscienza. Mi alzai, ed ero in spiaggia a fare a gara col cane a chi arrivava prima all’acqua. Era sempre lo stesso, con qualche variante. In realtà rimasi a lungo con la testa affondata nel cuscino, gli occhi semiaperti, e mi sarei riaddormentato, ne sono certo, se Miou non avesse cominciato a camminarmi sulla schiena, su e giù, con delicatezza ma con metodo, come chi rispetti una tradizione che va onorata. Era il suo modo di dirmi che era giunta l’ora della colazione, la sua e la mia.
Aprii le tende e guardai fuori. La giornata si preannunciava bella, il cielo era terso, di un celeste da cartone animato. Mangiammo i nostri croccantini, lei a secco, io con lo yogurt. Il piano per la giornata era semplice. Avrei messo in macchina un cambio, un paio di libri e un po’ di cibo, e sarei andato al mare. La villa dei miei, come la chiamavo da sempre, anche ora che ne ero l’unico proprietario, distava solo un’ora e mezza in auto, due ore e mezza in pullman. Il mio rifugio mentale, oltre che fisico; un luogo dove mi recavo spesso, durante le pause in ufficio, nel pieno delle riunioni di lavoro, durante gli spostamenti in metro o persino in ascensore.
Sistemai la gatta nel trasportino, scendemmo in garage e partimmo. Non ci andavo da quasi un mese, gli impegni di lavoro mi avevano bruciato più di un fine settimana. Il viaggio fu tranquillo e giungemmo alla villa poco dopo le dodici; lasciai uscire Miou, che sparì subito, infilandosi in un ampio cespuglio, con un miagolio di intesa. Il portico era coperto dalla sabbia, e così il vialetto. Anche le persiane e le pareti esterne ne erano come spruzzate, segno che aveva piovuto e il vento aveva soffiato la sabbia un po’ dappertutto. Mi appoggiai alla macchina a guardarla. Quello che amavo della villa era proprio questo, il suo essere circondata dalla sabbia, come un secchiello da mare poggiato a testa in giù sul bagnasciuga. E già pregustavo la mia attività più rilassante, spazzare portico e vialetto, un lavoro semplice e dignitoso, utile e doveroso, come camminare sulla schiena al mattino.
Mia madre ci teneva molto, che portico e vialetto fossero sempre presentabili, e questo scatenava sempre piccole discussioni con mio padre.
– Ma che senso ha preoccuparsi dell’opinione degli altri? Non abbiamo vicini, siamo gli unici lungo la costa, per decine di chilometri. La casa più vicina è in un altro comune, e non passa mai nessuno, è esattamente il motivo per cui l’abbiamo costruita qui, per essere isolati da tutti!
– Non importa, è una questione di ordine morale. Vialetto e portico sono il nostro biglietto da visita con noi stessi.
A quel punto mio padre alzava le spalle e imbracciava la scopa. Alto e magro, salopette jeans, i lisci capelli bianchi leggermente lunghi, sembrava una scopa lui stesso. Mia madre, capelli bianchi a crocchia, bassina e rotondetta, lo controllava da dietro la finestra della cucina, finché non aveva finito.

Mi ci volle più di mezz’ora, e alla fine mi sentii molto meglio. Scorsi Miou passare veloce, mi sembrò con un piccolo geco in bocca, o forse era solo la coda. Feci un giro intorno alla casa, trovai tutto in ordine. La villa era circondata da un ampio giardino, delimitato da un basso muretto a secco che nel tempo era stato rialzato con due file di tufi. Il muretto esternamente era stato poi intonacato e appariva uniforme, mentre all’interno pietre e tufi erano rimasti com’erano, e svariati animaletti, per lo più rettili e insetti, ci facevano il nido. Il giardino era semplice, cespugli bassi di mortella, rosmarino e timo, e alberi di eucaliptus, alcuni dei quali alti più di venti metri, il tutto in pacifica convivenza.
Anche dentro casa era tutto a posto, tranne della sabbia filtrata da sotto la porta e da una finestra dalla chiusura difettosa. Lasciai tutto com’era e uscii a guardare il mare, dall’alto della terrazza naturale che si estendeva sul retro della villa. Per scendere sulla spiaggia c’erano due modi, una scalinata di pietra, ripida e stretta, o un percorso più agevole ma più lungo, che con mio padre avevamo creato quando mia madre aveva cominciato ad avere problemi a camminare.
Dalla terrazza potevo osservare la baia da un’estremità all’altra. Il colore dell’acqua era azzurro chiaro, tranne in alcuni punti dove tendeva al blu, per le alghe che sciabordavano sul fondale. All’orizzonte, dove le rifrazioni del sole scompaginavano la realtà, credetti di scorgere un veliero tra le nuvole basse. Strizzai gli occhi, e nel dubbio, decisi che era così. Poi appoggiai le mani sul muretto e guardai in basso. Mia madre camminava lungo la riva raccogliendo conchiglie, accompagnata da Buffy. Mio padre era seduto sulla sedia a sdraio, leggeva un libro.
Rimasi in silenzio a guardarli, tre piccole figure bianche, quasi dei granelli di sabbia anche loro, poi Buffy percepì il mio odore, guardò in su e cominciò a abbaiare. Allora mia madre si protesse lo sguardo dal sole, mi vide e chiamò mio padre, che si alzò in piedi, si avvicinò di qualche metro e mi salutò, sventolando un braccio. Buffy scodinzolava e correva in cerchio. Alzai una mano anch’io e sorrisi a entrambi.

Una scena che conoscevo fin troppo bene. Mi soffermai a guardare ancora un po’, poi rientrai in casa. Mi tolsi le scarpe, mi versai un bicchiere di vino rosso e mi sdraiai sul divano. Tirai a me lo zainetto e presi il mio libro. Era ora di pranzo ma avevo fatto colazione tardi e non avevo fame. Lessi una decina di pagine con un senso di provvisorietà, come se non ne avessi diritto. Allora cambiai l’acqua a Miou e colmai la ciotola del cibo di croccantini. La gatta non si vide, ma funzionò. Da quel momento la lettura mi avvolse come un plaid caldo e il mondo intorno scomparve. Nel silenzio rarefatto della casa vuota, filtrava solo il suono vicino del vento fra le foglie di eucaliptus e quello lontano delle onde che rimescolavano la sabbia.
Dopo un paio d’ore, un debole colpo di clacson, quasi accennato. Guardai l’orologio e sentii il cuore scaldarsi, come se un piccolo phon interno si fosse acceso. Marthine era in anticipo, di almeno un’ora. Mi infilai le scarpe e le andai incontro, ma non la trovai in giardino. Aveva parcheggiato fuori, sulla strada. Raggiunsi la sua Citroën, due grosse buste della spesa erano poggiate a terra, accanto alla portiera di destra. La scorsi, infine, dietro una piccola duna, qualche decina di metri più in là, in piedi, di profilo, osservava il mare.
Era un mese che non la vedevo, mi sembrò più alta e magra del solito. Stretta nel suo trench verde, gli occhiali neri e i capelli castani lunghi scomposti dal vento. Si voltò verso di me e il suo sorriso mi fece l’effetto di un tappeto rosso che si srotolava ai miei piedi, anticipando ogni mio passo. L’abbracciai e divenimmo una cosa sola, un essere nuovo, quattro gambe, quattro braccia ma un solo cuore e un unico cervello. Potevo sentire le sinapsi armonizzarsi e resettare tutto, quelle quattro settimane, i problemi al lavoro, i sogni ricorrenti, le paure, le incertezze, i desideri, la noia, non esisteva più nulla, esisteva tutto. Poi, raccogliemmo le borse e ci incamminammo verso la villa. Giunti in vista della terrazza rallentò il passo.
– Li hai visti ancora?
– Sì – risposi – sono sempre lì… vuoi vederli?
Marthine si fermò, si aggiustò gli occhiali e disegnò con un piede un semicerchio nella sabbia.
– Certo, perché no?
Raggiungemmo il muretto e guardammo in basso. Buffy tormentava un lungo bastone. Mio padre aveva ripreso a leggere, mia madre gli era seduta accanto e disponeva in fila le conchiglie raccolte, suddividendole per tipo e dimensioni. Si voltarono nello stesso istante, guardarono in alto e la salutarono, sorridendo. Lei, incerta, rispose al saluto, muovendo la mano sinistra.
Il sole era una palla rossa che sfrigolava nel mare, divenuto calmo e trasparente. Una famiglia di gabbiani curiosava sul bagnasciuga, osservata con interesse da Buffy. Altri uccelli più piccoli attraversarono in volo la baia, in silenzio. Marthine mi guardò.
– Sì, sono sempre lì – risposi.
– Sempre… vuoi dire che non sono…
– No, mai, non salgono mai quassù. Stanno bene sulla spiaggia. Marthine guardò in terra, con una punta di imbarazzo.
– Pensi che, insomma, se ne andranno, un giorno?
– Questo non lo so. Certo, hanno tutto il tempo del mondo.
La presi per mano ed entrammo in casa, la gatta ci aspettava, strusciandosi sullo stipite della porta.
………………………….
Originariamente pubblicato in Ventimila battute sotto i mari, 30 aprile 2020
Di notte
Treno per Lecce. Serata di luglio, umida e calda. Treno notturno, pieno, quasi al limite della capienza.
In buona parte è composto da scompartimenti normali, dove i passeggeri dormiranno seduti, in misura minore da vagoni-letto, con scompartimenti a sei cuccette. Io ho una di queste, una delle più alte. Quando il cuccettista apre la portiera sono solo, gli altri passeggeri devono ancora arrivare. Sistemo le mie cose, mi sdraio, poi mi rendo conto di non avere acqua per la notte. Sulla banchina ho visto un distributore di bevande a moneta, così ripercorro al contrario la scaletta metallica e scendo dal treno. Quando rientro trovo due passeggeri che si stanno sistemando e mi rendo conto con un po’ di stupore che uno di loro è una donna.
Non avevo considerato questa possibilità, credevo che l’assegnazione delle cuccette prevedesse la separazione per sesso. L’uomo mi guarda e accenna un saluto, la donna invece non si accorge del mio ingresso. Mi dà le spalle, impegnata nella sistemazione del suo letto, su cui ha aperto la valigia. Non riesco a capire se si conoscono o meno. Lui è sui trent’anni, aspetto da uomo del sud, lei sembra più grande. Minuta, bassa di statura, un lungo vestito rosa e bianco, i capelli nerissimi legati e coperti da un velo. Entrambi hanno la cuccetta nel settore di fronte al mio, lei la più bassa, lui quella mediana. I passeggeri che dovranno dormire sotto di me non sono ancora arrivati. Trascorso qualche minuto la donna si volta, mi vede, ci salutiamo con un cenno di cortesia. Mi rendo conto che è straniera, forse indiana.

Alla fermata successiva salgono e prendono posto gli altri tre passeggeri, due uomini sui cinquant’anni e un ragazzo. Mi sembra di cogliere, anche in questi nuovi passeggeri, lo stesso stupore di fronte alla presenza di una donna, l’unica. Al passaggio del controllore nessuno ne parla, ma ho la sensazione che tutti ne seguano le mosse e cerchino di capire se si sia trattato di un errore o meno. Il controllore legge con attenzione la prenotazione della donna, la gira e rigira tra le mani, ma non fa alcun commento e prosegue il suo giro. Infine, ognuno si sistema e, dopo un breve scambio di buonanotte, ognuno è al suo posto. Io, la donna e un altro compagno di viaggio teniamo la luce della cuccetta accesa per leggere, gli altri giacciono in silenzio e, uno alla volta, si addormentano.
Dalla mia posizione posso vedere che l’indiana ha ben tre libri accanto a sé, di cui uno piuttosto voluminoso, denso di immagini e fotografie, poggiato su uno zaino che funge da comodino. Porta gli occhiali e, di quando in quando, annota qualcosa su un taccuino. Quando spengo la luce sta ancora leggendo. Il rumore del treno e le sue vibrazioni conciliano il sonno e mi addormento profondamente. Mi sveglio solo una volta, e noto che la donna dorme con la luce accesa.
La mattina è luminosa e la luce del sole filtra da sotto la tenda che copre la finestra dello scompartimento. Quando apro gli occhi due passeggeri sono usciti in corridoio. Gli altri, fra cui l’Indiana, si stanno svegliando. Uno dopo l’altro scendono dalle scalette, vanno in bagno, chiudono le loro borse. Il cuccettista riappare e chiude le cuccette, ricostituendo lo scompartimento nel suo assetto iniziale, sei posti a sedere. Anche la signora indiana si reca alla toilette e torna poco dopo. Quando riappare è un’altra persona. Porta i capelli sciolti e si è cambiata d’abito. Ora indossa un lungo vestito rosso amaranto, molto elegante. Il suo ingresso provoca una reazione di stupore e ammirazione. Anche se non espresso a parole, si percepisce con chiarezza un clima nuovo, un misto di curiosità, di sfida, di erotismo appena accennato. Una notte sotto lo stesso tetto, nello stesso scompartimento, ha reso sei sconosciuti un po’ più vicini.
La donna accenna un sorriso ai cinque uomini seduti e con naturalezza compie un gesto che cambia di nuovo lo scenario. Tira fuori una spazzola dalla borsa, china il capo e abbandona i lunghi capelli neri quasi fino a fargli toccare il pavimento. Poi comincia a spazzolarli dall’alto verso il basso, lentamente ma con vigore. I cinque uomini sorridono con un vago imbarazzo e si scambiano sguardi di intesa.
La scena va avanti per un tempo lungo, o almeno così mi sembra. Nel pieno di questa operazione entra il controllore. Non è lo stesso della serata precedente. È un uomo molto alto e magro, brizzolato, sui cinquanta abbondanti. Alla vista della donna, vestito amaranto, intenta a spazzolare i lunghi capelli sciolti, ha un sussulto, poi aggrotta le sopracciglia con un’aria a metà tra il divertito e lo scandalizzato e si appoggia alla porta scorrevole. Dopo un attimo di silenzio si guarda intorno ed esclama: – Scusate signori, potete favorire i biglietti? La signora non sembra capire e continua a pettinarsi. Gli altri porgono quanto richiesto. Il controllore allora alza di poco la voce e si rivolge alla donna: – Mi scusi signora, può farmi vedere la prenotazione? – Should I show my ticket again? – e subito tira fuori dalla borsa il biglietto e lo porge all’uomo. Lui lo osserva con attenzione, poi glielo restituisce e si siede, mettendosi comodo, appoggiando la schiena e adagiando la borsa di cuoio accanto a sé. Da quella posizione continua a studiare l’indiana, che ha ripreso a pettinarsi. È tornato il silenzio. Gli altri passeggeri sembrano avere delle aspettative da questo nuovo confronto, osservano anche loro con interesse.

Poi all’improvviso il controllore si rivolge alla donna: – La sa una cosa? Mi ricorda mia moglie. Anche lei ha i capelli neri, lunghi. La sera quando andiamo a letto… – sorride ammiccante – la abbraccio tutta! La donna lo ascolta, senza capire. Allora l’uomo chiede ai presenti se qualcuno parla inglese. Io mi faccio avanti e traduco alla donna quanto le ha detto, o quasi: – He said that his wife has long black hair, like you.
L’indiana sorride.
– He said also that he likes to hug her, in the bed…
Lei continua a sorridere, ma con maggior circospezione. Il controllore mi guarda: – Hai tradotto? – chiede prima di tornare a fissare la signora indiana con sguardo malizioso: – E poi le prendo i seni e… mmh!
I presenti ridacchiano, tra l’imbarazzato e il divertito. Il controllore allora ammicca al suo pubblico e, sempre fissando la donna, mima il gesto di succhiare i capezzoli della moglie.
Il treno fischia e sobbalza, continuando la sua corsa. Due dei passeggeri che avevano riso all’inizio, ora tacciono. Uno di loro osserva la scena con apparente distacco, come se non la riguardasse, il secondo guarda a terra. Gli altri due continuano a ridere sommessamente. Nessuno commenta. Ho la sensazione che siano tutti disorientati e forse soggiogati dal ruolo di potere del controllore. Neanche io riesco a intervenire.
Mi volto verso la donna, lei mi lancia un’occhiata, come a dire che non c’è bisogno di tradurre. Sorride all’uomo e sostiene il suo sguardo, con un’evidente aria di superiorità, squadrandolo dall’alto in basso, nonostante sia molto meno alta di lui. Lui allora si alza, con uno sguardo soddisfatto, saluta tutti e va via.

La signora comincia a sistemare i suoi libri e quaderni, dopo aver riposto la spazzola nella borsa. Le chiedo dove è diretta, quasi a voler ristabilire un livello minimo di convivenza civile
– I’m going to Lecce. Are you going to Lecce too? –
Lei mi risponde senza esitare, e il tono sembra sottendere la mia stessa aspirazione, quella di tenere un livello di conversazione educata e rispettosa.
– Yes, I’m going to meet some colleagues in Lecce. I’m an anthropologist. We are going to attend a scientific congress. I must speak about my research. After that… we’ll be on vacation. I look forward to it!
Continuiamo a conversare per una mezz’ora, poi il treno sbuffando si ferma in stazione. Tre uomini e una donna la stanno aspettando sulla banchina. Due di loro sono sicuramente anglosassoni, capelli bianchi, camicia a scacchi e penne nel taschino. La accolgono calorosamente. La signora si unisce a loro e va via, dopo avermi salutato con un sorriso.
Ho un appuntamento anch’io. Mentre aspetto faccio colazione al bar della stazione. Assaporando il primo pasticciotto dell’estate, penso alla passeggera indiana. Non posso fare a meno di chiedermi se riporterà l’incontro di stamattina nella sua relazione al convegno.
Tratto da “Non date i soldi a Mike Tyson e altre corse“, 2019

L’intervista

Mr. Furrington mi accoglie sorridendo, un sorriso gioviale. E’ come me lo aspettavo. Un uomo distinto, ben vestito, curato, sui sessanta portati bene. Mi indica dove parcheggiare l’auto e mi fa visitare, come si conviene, la tenuta, o meglio dire la parte che circonda la casa.
La casa è grande ma non grandissima, uno stile indefinito, accogliente. Intravedo una donna alla finestra, si ritrae quando si accorge che la sto osservando.
Trovo leggermente strano dover parlare in Inglese, ma è un patto tacito fra noi. Fingo di ignorare che entrambi parliamo Italiano, o meglio, Italiani lo siamo. O dovrei dire lo siamo stati.
Mr. Furrington è nato a Macerata, da genitori Italiani. Io sono nato a Roma, da genitori Italiani. Ma mi chiamo Zbigniew Pawlack, ora, e sono giornalista.
A proposito, l’intervista ha inizio; è per questo che sono qui:
“Mr. Furrington, innanzitutto, perché Powfoot, cinquecento anime, nel sud della Scozia?”
“Perché no? E’ un posto incantevole e tranquillo, come tutto il Dumfries & Galloway. Qui riesco a scrivere con la tranquillità che cerco. E poi in un’ora sono nel cuore dell’Inghilterra o a Edimburgo, la città più culturalmente vivace del Nord Europa. Mi piace vivere qui.”

“Lei è internazionalmente riconosciuto come il maggior storico dell’Italia, in particolare della fase finale. Può risponderci a qualche domanda sugli ultimi anni?”
“Stento a credere che a qualcuno ancora interessi, ma prego, proceda pure. Ma poi, in fondo non dovrei stupirmi, i miei libri qualcuno li compra”
“E sono centinaia di migliaia di persone, lo sa. Mi permetta di iniziare dalla parte, almeno per la maggior parte dei nostri lettori, più affascinante. Come è iniziato?”
“Non si è verificato un vero e proprio inizio riconoscibile. E’ stato graduale. La crisi politica ed economica portò, come sanno tutti, alla crisi della trasmissione di notizie, o meglio, l’attenzione generale era concentrata sui fatti principali, la strage dei Parlamentari, l’omicidio del Pontefice, la secessione al Nord-Est e quella Siciliana, e nessuno si accorse del fenomeno, ben più grande, che si stava verificando. Parliamo di milioni di persone. Ma silenziose, discrete e soprattutto non pienamente consapevoli di non essere le sole.”
“Quali furono, in quella fase, le mete principali?”
“Questo lo sanno tutti. Il Kenia, sicuramente, il Sud Africa. Ma anche tutti i maggiori Paesi Europei. Anzi furono proprio questi che ne assorbirono il maggior numero. Almeno in una prima fase. Poi l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada, il Venezuela, la costa occidentale degli Stati Uniti, il Messico.”
“Perché non possiamo parlare semplicemente di una nuova spinta migratoria, come all’inizio del XX° secolo?”
“Perché gli emigranti lasciano sempre qualcuno nel Paese di provenienza. Qualcuno che li aspetta, ai quali mandare soldi, da andare a trovare, qualcuno da cui tornare, magari solo per vivere la pensione e morire. In questo caso fu differente. Nel giro di dodici-quattordici mesi milioni di persone vendettero la casa, la terra, tutto. Si tagliarono i ponti alle spalle, capisce? Per ricominciare da un’altra parte, ma anche per dimenticare, forse per… cancellare”.
“Si riferisce ai Grandi Roghi?”
“Sicuramente, ma non solo. Quando fu incendiata la Biblioteca Nazionale, ricorda? Contemporaneamente furono devastati i maggiori musei, le pinacoteche, e in parte i grandi monumenti, il Colosseo a Roma, il Duomo a Milano, gli Uffizi, il Maschio Angioino, la Torre a Pisa, i Musei Vaticani, San Pietro, per giunta pieno di Cardinali in conclave. Tutto raso al suolo. Per quanto tempo pensammo a gruppi terroristici stranieri? Poi, gradualmente, la verità venne a galla. Naturalmente questo spinse chi ancora era rimasto ad andarsene. Ed ebbe inizio la seconda fase”
“Quella più spettacolare, immensa”
“Ma guardi che numericamente fu minore della prima. Fu evidente perché concentrata. E poi perché lasciò il vuoto dietro. Già a metà della seconda fase migratoria, il territorio era libero al 70%. Una volta si sarebbe detto un esodo di proporzioni bibliche. Ora si può dire di proporzioni “Italiche”. Rimasero piccoli presidi, in Val d’Aosta, nel Molise, sull’Aspromonte, poi si svuotarono anche quelli. Non rimase nessuno”
“Ne possiamo essere certi?”
“Naturalmente non possiamo escludere che qualche piccolo gruppo sia rimasto sul territorio. Ma stiamo parlando di qualche centinaio di persone in tutto. Su 60 milioni di persone, è niente, senza pensare che hanno cambiato – come tutti – nome e lingua”

“Hobswam Jr. sostiene che in realtà siano diverse decine di migliaia, soprattutto in Tuscanyshire. Vivono come servi, mezzadri, guardiani, svolgono i lavori più umili”
Mr. Furrington si alza, un sorriso tirato. Si versa da bere e me ne offre un bicchiere, del Pymm. Poi un sospiro, guardando fuori dalla finestra. Un lavorante, capelli neri e occhi castani, rastrella le foglie, sotto una pioggia leggera.
“Hobswam Jr. ripete cose dette o scritte da altri; non si documenta e sceglie le fonti sbagliate. Ripeto, sono centinaia; trecento-quattrocento al massimo, e non conoscono quasi più la lingua madre. Certo, ci sono i Vaticani, ma parlano latino, e sono nomadi. Hanno quasi tutti delle malattie genetiche, la stragrande maggioranza è minorata psichicamente e non vive oltre i quarant’ anni.
Naturalmente i Sardi, ma quello è un altro fenomeno. Come circa un quinto dei Siciliani, non sono andati via, o almeno non tutti. Il cambiamento è stato in realtà molto più profondo. Pur rimanendo sul territorio, hanno completamente cancellato una parte della loro cultura, recuperato lingua, dialetti, culti locali, abbigliamento tradizionale, una volta si sarebbe detto etnico. Non si capiscono più tra loro, ormai.
“Secondo lei, nelle colonie, soprattutto nella maggiore, in Kenia, qualcuno parla in Italiano? Quali tratti della cultura originaria sopravvivono?”
“Un emigrante esalta alcuni tratti della cultura d’origine, ne dimentica altri. Qui è diverso. Non vogliono più saperne, c’è un generale e profondo rigetto. Il cambio di nome, di lingua, abitudini alimentari, modo di vestire. Sono tutti tratti di un rifiuto profondo e totale. Della cultura Italiana, lo possiamo dire con certezza, non è rimasto nulla. Oltre alla devastazione materiale, pensiamo ai libri, ai quadri, ai film, è tutto bruciato…dicevo, oltre a questa, riscontriamo una devastazione personale e sociale. C’è chi si sottopone a trapianti, lo sa?”
“L’ho sentito dire. Non sapevo se crederlo”
“Ne ho la prova. Capelli, occhi, ma anche corde vocali. Ora è possibile. Anche la pelle, in alcuni casi. Qualsiasi cosa che possa ricordare le proprie origini. E’ finita. Ma almeno l’abbiamo scelto noi”.
Una signora entra nella sala della biblioteca, dove ci siamo appartati. Spengo il registratore. E’ sui trent’anni, molto graziosa, dai caratteri sembra Indiana. Sorride e deposita sul tavolo un vassoio con del tè. Credo sia la moglie, ma Furrington si limita a presentarla come “la mia Sonja”. Beviamo il tè insieme e poi mi congedo da loro e dalla nebbia di Powfoot.
Ora piove più intensamente. Restituisco l’auto a noleggio e raggiungo a piedi la stazione di Lockerbie. Il treno mi porta a Ayr e da lì mi imbarco sul traghetto per Belfast. Mi fermo sul ponte. L’aria è fredda, il mare è mosso. Lo osservo, penso alle parole di Furrington. L’acqua che cade dall’alto si fonde con quella grigia intorno alla nave.
E’ in fondo la stessa acqua che molto più a sud bagna la Dolce Penisola, com’è chiamata ora, finalmente con rispetto.