Il diavolo

FONTE ORIGINALE: BLOGORILLA SAPIENS – 29 OTTOBRE 2022

Il diavolo in persona? Ragazzo, di storie strane qua sotto ne abbiamo sentite tante, ma questa le batte tutte, ma dove…
L’uomo allungò un braccio e con la mano toccò tutto ciò che incontrava, finché le sue dita riconobbero il vetro di una bottiglia. Si rese conto che era ancora da stappare e cacciò una bestemmia.
─ In questa cazzo di galleria non si vede nulla, sono certo che ce n’erano di già aperte, perdio! Ce l’hai un cavatappi? Ehi, ci sei?
Il ragazzo rispose a bassa voce:
─ Maresciallo, sono qua, davanti a lei.
─ Non ti vedo, non vedo un cazzo di niente… insomma ce l’hai o…?
Non finì la frase, con sollievo riconobbe la forma dello strumento che il ragazzo gli aveva messo in mano. Stappò il vino e dopo un paio di lunghi sorsi si rivolse nuovamente al suo compagno.
─ Ragazzo, cominciamo da capo. Sei tornato nella galleria diciotto? Lo sai che a quella non possiamo avvicinarci, è zeppa di gas e se ci sei andato altro che un diavolo, potevi vedere l’inferno al completo!
─ No Maresciallo, non sono sceso nella diciotto, non sono matto. Era in superficie, appena fuori dall’imbocco della miniera. Ero uscito per l’acqua, e poi non ho detto che era il diavolo, era uguale però, cioè come me lo immagino…
─ Cioè? ─ L’uomo cercava, nel buio, di capire da dove provenisse la voce del ragazzo.
─ Era… mi sembrava, molto alto, sicuro più di due metri, ma era sollevato da terra, si muoveva appena, dondolava a destra e a sinistra, sbattendo… beh…
─ Sbattendo cosa?
─ Le ali, Maresciallo.
─ Ragazzo, se stai cercando di marcare visita con questo trucco giuro che ti spezzo le gambe e allora in ospedale ci vai davvero. Allora, sai che facciamo? Risaliamo su e mi fai vedere dove si nasconde questo pipistrellone… sai cosa penso? Che hai visto un crucco, e non te ne sei neanche accorto. Ed è stata la tua giornata fortunata, perché non ti ha visto neanche lui. Sarà uscito dalla sua trincea per pisciare, e al buio ha perso l’orientamento, e tu hai perso la tua occasione, il tuo primo bastardo austriaco, peccato.

Mentre parlava calzò gli stivali, infilò l’elmetto e sistemò la cartucciera sul petto. Non smise di parlare neanche quando cominciò a scurirsi la fronte e le guance con la cenere. Infine si attaccò ancora alla bottiglia, bevve un sorso e sputò due volte a terra: ─ Merda, vino e cenere insieme fanno schifo, perdio! Allora? Sei pronto?
Il ragazzo era pronto. Aveva cominciato a capire cos’era accaduto. Doveva essere andata come diceva il Maresciallo, pensò; era vivo per miracolo, il crucco non l’aveva visto e lui non aveva riconosciuto il crucco. Si infilò l’elmetto e sospirò, in direzione della voce del superiore:
─ Sì, sono pronto, la precedo.
Risalirono lungo le gallerie della miniera abbandonata dove il plotone si era acquartierato da una decina di giorni. In ogni rientranza, in ciascuna grotta, decine di soldati dormivano sdraiati o stavano seduti, assorti, lo sguardo fisso nel buio. I due militari si muovevano con attenzione lungo le passatoie. Non li vedevano, ma li sentivano respirare, percepivano il fetore proveniente da quella massa di corpi sudati, sporchi, sfiniti. Avevano scelto la miniera per guadagnare tempo, in attesa dei rinforzi da sud. Era questione di un’altra settimana, ancora sette giorni da topi e poi sarebbero tornati su, in trincea.

Nessuno dei trecento soldati era autorizzato a uscire, tranne una mezza dozzina di sabotatori, incaricati di prendere l’acqua per tutti, al ruscello, uno alla volta e solo di notte. Il maresciallo, via via che sparivano, li aveva sostituiti, senza raccontare niente a nessuno e senza capirci nulla. Uno su due non tornava, era un fatto. C’era qualcuno, là fuori, che sapeva aspettare, e che in silenzio se li portava via. Un crucco, certo, cresciuto nel fango della trincea, abituato a strisciare in silenzio, dipinto di nero, coltello in bocca, con abbastanza coraggio da avvicinarsi alle linee nemiche. Ne aveva avuti anche lui di soldati così, avanzi di galera, galeotti da ergastolo. Ricordava bene Gaetano, un pluriassassino di Caserta, quanto gli era affezionato. L’aveva tirato fuori dal carcere a vita e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Ricordò il Natale di due anni prima, quando Gaetano gli aveva portato una testa d’austriaco in regalo. Alla fine però un cecchino se l’era preso, proprio all’alba, mentre tornava da una delle sue missioni.

Quando arrivarono all’imboccatura della caverna di uscita, si fermarono e rimasero in ascolto. Dall’esterno giungevano solo i richiami degli uccelli notturni, il rumore delle foglie mosse dal vento, null’altro. Il maresciallo rimosse con circospezione le frasche che coprivano l’ingresso e sbirciò fuori. Poi strisciò all’esterno, seguito dal ragazzo. Raggiunsero il ruscello e lì il giovane indicò con lo sguardo una piccola radura, poco più di cinque passi di diametro, circondata da alberi e massi. Solo un debole rumore d’acqua e il gracidare sommesso di un paio di rane spezzava il silenzio, lo rendeva più evidente. La luna era coperta dalle nuvole ma la poca luce bastò al maresciallo per vedere il viso del ragazzo che lo guardava, poi fissava un punto preciso, e poi tornava a guardarlo, annuendo. Era quello il punto. L’uomo strisciò al buio per alcuni metri e si portò sul posto. Poi si voltò verso il giovane e non lo vide più. Fece un giro su se stesso, ma niente, era scomparso. Tastò allora il terreno e trovò qualcosa. Ai suoi piedi giaceva il corpo di un soldato, bocconi, il cranio sfondato. Alzò lo sguardo e il ragazzo era di nuovo lì, che lo guardava. Il maresciallo sussurrò, incredulo:
─ Ma non capisco, sei stato tu? Sibilò a bassa voce.
Il ragazzo fece di no con la testa.
Il maresciallo allora girò il cadavere su se stesso e la luce della luna ne illuminò il volto. A quella vista scattò in piedi, con la destra estrasse il pugnale dalla fondina, mentre con la sinistra si toccò la fronte ed esclamò:
─ Tu! Ma questo… sei tu!

Quella cosa allora si alzò in volo, ma solo il tempo di aprire e chiudere le ali, marroni e lucide, poi si avventò sull’uomo, affondando gli artigli nelle sue spalle, per una decina di centimetri. Il maresciallo non morì subito. Per alcuni minuti riuscì ancora a percepire il vento freddo, lo sbattere delle ali, a scorgere le cime degli alberi ondeggiare sotto di lui, poi più niente.

Marco Tosi

FONTE ORIGINALE: BLOGORILLA SAPIENS- 29 0TTOBRE 2022

In volo

Un collage di Ilaria Salvatori

Oggi il quadrato della finestra si è allargato; sono uscita, finalmente.

Quando è successo ho fatto fatica a crederci ma dovevo, perché all’improvviso ho sentito tanti odori diversi, e avevo freddo e poi caldo sulla pelle.

E le voci dei bambini, gli strilli, e gli spintoni che mi hanno dato senza accorgersene. Una bambina doveva essersi nascosta sotto la mia sdraio, forse giocando a nascondino, perché sentivo il suo ansimare leggero, a un passo da me. Pochi minuti, poi è corsa via.

Ho sentito parlare i medici, questo sì: portiamola fuori, tanto ormai… è uscito il sole, almeno lo sente, dovrebbe percepirlo. Mi hanno messa sotto il ciliegio, il profumo dei fiori quasi mi stordiva. Un pensiero gentile.

E poi mi sono addormentata nuovamente. Ma questa volta era diverso. Nei sogni vedevo; invece stavolta non vedevo nulla, tutto buio. Ho avuto un po’ paura, ho sentito qualcosa che si rompeva come un cristallo.

Quindi ho iniziato a volare, ma in tondo, perché non ero capace. In mezzo ai rami, fra le foglie verdi, fra i fiori, anzi, nei fiori. Sbattevo qua e là, poi ho trovato l’equilibrio. Aggrappata a un petalo, ho guardato in basso e ho visto i bambini, la sdraio, i camici bianchi che parlottavano sereni intorno a me; nulla di imprevisto. Poi mi hanno portata via; sono scesa a curiosare, mi sono posata un attimo sul mio naso, ma un attimo solo: un camice mi ha allontanato. Allora di nuovo su, sul ciliegio, tra le foglie verdi, i fiori bianchi, il muschio sui rami, il vento caldo, la corteccia liscia. La primavera, ho pensato, è scoppiata davvero, ma non l’ho proprio pensato, l’ho sentito, vissuto, l’ho ronzato, ero io la primavera, ero felice. Mi sono resa conto che vedevo nuovamente; mi sono fermata un attimo a osservarmi le zampine, piene di polline, e le ali: questa non me l’aspettavo, ho pensato. Sono scesa tra i bambini, a volo radente sull’esercito bianco e giallo delle margherite, tra i rami storti del glicine, sui gerani del balcone, il mio balcone. I miei gerani rossi, finalmente li vedo, mica male, ero brava, sono brava, sono felice, felice, felice.

Marco Tosi

12 Ottobre 2022

Editing di Silvia Penso e Piergiorgio Andreani

PUBBLICATO SU BIROCONLACCENTO.COM (originale qui di seguito) – cliccare sull’immagine.

Filicudi


Sono passati venticinque anni, mai tornato, non credo tornerò. Tante immagini, preferisco restino come sono. Pane e giornale del giorno prima, se il mare permetteva al traghetto di attraccare. Lunghe sonnacchiose giornate, sola attrazione l’arrivo dell’unica nave di collegamento. Turisti pochi, spesso senza soldi. Molti, come me, in una delle tante case abbandonate sull’altra sponda dell’isola, nessuna finestra e tanti gechi sui muri a mangiare zanzare.

Due soli negozi, un alimentari e un bar. Il bar, una bella veranda affacciata sul mare, gestito da ex emigranti in Australia, che buffo sentirli fare i conti in inglese. La corrente non c’era, se la nafta per il gruppo elettrogeno non arrivava.

E poi il negozio. Me lo dissero appena sbarcato, c’è un lebbroso, attento, fa un po’ impressione ma non attacca, è lebbra secca. Una mattina entrai. Fuori il sole abbacinante, dentro buio totale. Sentii una voce. Buio, poi di nuovo la voce, di bambino. Mi girai, lo vidi.
Era seduto,un bambino in braccio. Un cappello di paglia copriva parte del volto.
Pane e formaggio, grazie. Non aveva tutte le dita, e quelle che aveva erano più corte del normale. Si tolse il cappello. Non aveva orecchie, palpebre, ciglia, non aveva il naso. Non aveva capelli, e la pelle della testa era macchiata. Il bambino ci guardava e sorrideva ad entrambi, sereno. Pagai, sorrisi ed uscii. Sorrise anche lui, un sorriso senza labbra.

Era difficile vederlo per le strade di Filicudi. Prima di ripartire però lo incontrai nuovamente; camminava lungo la spiaggia, con il suo cappello di paglia e gli occhiali da sole, il mare blu accanto a lui. Non stonava affatto, anzi. Quella meravigliosa isola senza corrente nel cuore d’Europa, così esotica e abbandonata, era adatta a lui e lui a lei.












Marco Tosi, Agosto 2005
………….
Inviato a La Repubblica per il concorso “Racconta la tua estate”, nell’agosto 2005. Selezionato tra i primi dieci, classificandosi terzo nella categoria “viaggi low cost” (inserto “I Viaggi di Repubblica” – Febbraio 2006).
………..
“(…) Non me lo avevi mai raccontato. E’ un racconto pieno di emozioni compresse. Ti assomiglia molto” . Commento via sms di mia madre Anna, 05 febbraio 2006.

La storia di Olga, il racconto di un’esule bielorussa.

(di Paolo Pirani)

Ho conosciuto la pittrice Olga Silivanchyk attraverso l’associazione Bielorussi in Italia – Supolka. Mi è stata presentata come un’esponente particolarmente attiva della comunità.

La sua storia personale aiuta a farsi un’idea di cosa significa vivere nella Bielorussia di Lukashenko. Il suo lavoro, le sue idee e l’attività politica che svolge dall’Italia per sostenere l’opposizione nel suo Paese rappresentano il fermento contro il regime di quello che molti definiscono “l’ultimo dittatore d’Europa” e che Olga chiama “Agro-Fuhrer”.

La famiglia di Olga e l’infanzia in Unione Sovietica

Olga è nata nel 1980 a Minsk, in quella che allora era l’Unione Sovietica, da una famiglia di artisti e scienziati con un profilo culturale alto. La sua storia famigliare rispecchia gli sconvolgimenti del ‘900 in quella parte del mondo. Ciò che racconta delle sue due nonne è particolarmente significativo: “due donne nate entrambe in tempi duri, una che ha dovuto abbandonare il suo paese natale a causa della guerra e l’altra che ha perso il padre durante le repressioni staliniste.”

La nonna materna era nata nel 1926 a Baku, in Azeirbaigian, figlia di un rinomato ingegnere locale. Nel 1943, con l’offensiva nazista nel Caucaso e l’assedio di Baku da parte delle truppe tedesche, la nonna di Olga abbandonò il paese insieme alla madre per rifugiarsi prima in Kazakistan e poi, a guerra finita, in Bielorussia. Fu lì che conobbe il suo futuro marito, un soldato Bielorusso di ritorno da Berlino. Dai racconti della nonna, Olga ha familiarizzato con la durezza della guerra e col dolore di chi è costretto ad abbandonare il proprio paese. “Mia nonna è stata una rifugiata di guerra, ha dovuto lasciare la sua casa ed il suo paese con una valigia in mano, attraversando il Mar Caspio su un’imbarcazione di fortuna.” ricorda Olga.

La nonna paterna era originaria della Bielorussia, nacque nel 1923, poco dopo lo scioglimento definitivo della neonata Repubblica Popolare Bielorussa sotto l’avanzata dell’Armata Rossa che istituì la Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa. Gli anni che vanno dal ’22 all’inizio della seconda guerra mondiale coincisero con il processo di collettivizzazione forzata prima, ed il periodo delle grandi purghe staliniane poi.  Sono tempi di dure repressioni e in queste cadde anche il bisnonno di Olga, un pittore come lei: 
“Mia nonna mi ha raccontato che una notte sono venuti a prenderlo ed è stato spedito in un lager e da quel momento è letteralmente sparito. Quindici anni dopo è arrivata una lettera che comunicava che era morto”. 
Quando salì al potere Lukashenko, la nonna aveva esclamato “è finita!”. Parole ancora più forti considerando che erano pronunciate da una donna che dopo aver perso il padre in quel modo, a 18 anni si era arruolata volontaria e aveva combattuto al fronte i nazisti.  
Olga ci scherza su e dice che “più che un patriarcato la sua famiglia era un matriarcato”. In questo matriarcato Olga nasce all’inizio dell’ultimo decennio di vita dell’URSS. Di quegli anni ha un ricordo sincero: 
“Quella in Unione Sovietica è stata la mia infanzia, ed ognuno ha la propria infanzia. Io venivo da una famiglia perbene e di quegli anni ho dei ricordi bellissimi. Non ho visto la guerra, non ho conosciuto la fame. Quando è caduta l’URSS negli anni ’90 tutti abbiamo vissuto un periodo più difficile, con i negozi chiusi e le file ai supermercati. Per mesi a tavola non c’era la carne. Ma non mi è mai pesato tanto perché per me i valori erano diversi ed ero stata educata in un certo modo”. 

La presa del potere da parte di Lukashenko 
Alexander Lukashenko fu abile a presentarsi come il solo uomo in grado di gestire la crisi generata dalla caduta dell’URSS. 
“In quel momento di instabilità è riuscito ad offrire un senso di sicurezza e continuità.  A molti è apparso come la risposta al caos che segue il crollo dell’URSS, ma il prezzo è stato l’aver perso l’occasione di costruire un Bielorussia democratica ed il paese con lui è ripiombato nella dittatura”, 
pensa Olga. Membro del partito comunista sovietico, Lukashenko si era fatto un nome come direttore di un kolchoz (le fattorie statali dell’URSS) di provincia.  Nel 1994, alle prime e uniche consultazioni riconosciute come libere dalla comunità internazionale in Bielorussia, viene eletto presidente e da allora non ha più lasciato il potere, governando il paese con il pugno di ferro. Il Lukashismo, come molti dell’opposizione definiscono il modello imposto da Lukashenko, è un insieme di visione nostalgica del passato sovietico, controllo totale dello Stato sull’economia, retorica machista, culto della personalità e uso sistemico della violenza politica.
Olga ha 14 anni quando Lukashenko prende il potere in Bielorussia. Lei è un’adolescente piuttosto ordinaria ed è appassionata di cinofilia. A 19 anni ottiene il certificato da addestratrice cinofila, si mette immediatamente alla ricerca di un lavoro e trova possibilità d’impiego in un centro militare, come insegnante. Passa la prova, ma le viene comunicato che sarebbe stata presa solo a condizione che sul libretto di lavoro (un documento, retaggio del sistema sovietico, che contiene tutta la storia lavorativa di un cittadino in Bielorussia) risultasse essere assunta come aiuto cuoco. Olga racconta:
“Il sistema creato  da Lukashenko, infatti, si fonda su una retorica conservatrice e misogina che, tra le altre cose, vieta alle donne di lavorare in determinati settori. Questo atteggiamento maschilista fa leva sulla parte più ignorante del paese. Lukashenko viene da una famiglia contadina, non ha una vera istruzione, e ha portato con sé questa mentalità arcaica al potere”.
Olga si vede quindi costretta a rifiutare questa prima occasione di lavoro.”Mi hanno discriminato. Era una proposta inaccettabile perché avrebbe interrotto la mia carriera sul nascere.”  Infatti in Bielorussia non si può essere assunti senza il libretto di lavoro e ciò che vi è scritto all’interno è l’unica dimostrazione della propria professionalità ed esperienza lavorativa precedente. “Sono stati questi i miei primi incontri con il sistema Lukashenko.” Dopo aver rifiutato si mette comunque in proprio e inizia a lavorare come addestratrice.

In questo periodo, Olga non è particolarmente attiva politicamente. “Seguivo gli avvenimenti che accompagnavano ogni elezione e referendum. Vedevo le proteste e la violenza con cui venivano represse. Non prendevo parte perché avevo paura” ricorda.  

Lukashenko, il primo presidente eletto della neonata Repubblica Bielorussa si muove frettolosamente per soffocare sul nascere il percorso democratico iniziato con la caduta dell’URSS. Nel 1996 indice un referendum truccato con il quale riesce a prolungare il proprio mandato da 5 a 7 anni e accentra su di sé il potere in modo tale da poter epurare gran parte dei deputati, da lui definiti sleali, dell’opposizione democratica. Da questo momento in avanti la situazione politica precipita, con Lukashenko che da una parte persegue ferocemente gli oppositori politici e dall’altra instaura nel paese una apparente vita democratica attraverso delle elezioni farsa che vince regolarmente con numeri da plebiscito utilizzando brogli, intimidazioni e rapimenti. Dei paesi dell’ex Unione Sovietica, la Bielorussia è l’unico in cui la polizia segreta di Stato conserva tuttora il nome di KGB: i metodi sono quelli.

Nel 2001 nasce Eugenio, il figlio di Olga. Anche la gioia di un momento così importante è rovinata dalla lunga ombra del regime. Lei è preoccupata perché avere un figlio maschio porta con sé delle conseguenze inevitabili: “Quando ho scoperto che era maschio ho pianto. E non erano lacrime di gioia. Erano lacrime che versavo perché pensavo già che a 18 anni lo avrei dovuto proteggere dalla leva obbligatoria.” 

Oggi Olga, ripensandoci, trova emblematica l’incapacità di immaginare l’ipotesi che, per quando il figlio sarebbe stato maggiorenne, il regime sarebbe potuto crollare: ”All’interno del paese si vive come in una bolla. In Bielorussia ci sono molte persone che non vedono la via d’uscita e hanno perso la speranza. Si vive ogni giorno con la convinzione che il sistema della dittatura sia eterno”.

L’Accademia di Belle Arti di Minsk

A 24 anni Olga ha quello che definisce una sorta di incontro miracoloso con l’arte. In un periodo molto difficile della sua vita si mette a disegnare, un po’ per gioco e un po’ per gestire lo stress. Un giorno porta con sé i disegni a casa di due amici pittori che ne restano sbalorditi: “Mi dissero, con la faccia seria, che dovevo assolutamente studiare…”. Dopo otto mesi di una lunga preparazione supera gli esami di ammissione ed entra all’Accademia di Belle Arti di Minsk. 

Il suo percorso all’università è eccellente, ma anche qui si trovano le tracce della dittatura di Lukashenko. Olga ricorda un episodio in particolare. Nel 2006, durante le manifestazioni contro gli ennesimi brogli, molti studenti dell’Accademia vengono arrestati per aver preso parte alle proteste e, una volta messo a tacere il dissenso il regime decide di andare a fare pulizia di tutte quelle strutture in cui albergava l’opposizione. Il direttore dell’istituto viene espulso e sostituito con un uomo del regime. Subito dopo, a essere preso di mira come voce fuori dal coro è l’anziano professore di disegno di Olga, “un uomo intelligente, preciso, uno spirito libero che tutti stimavamo”.  Le angherie nei suoi confronti vanno avanti per un po’, fino ad una mattina: “Quella mattina non si è presentato a lezione, una cosa stranissima vista la sua puntualità, e dopo poco abbiamo ricevuto la notizia che era stato trovato impiccato in casa propria”, ricorda Olga. 

Il professore aveva scritto una lettera d’addio ai suoi studenti: “In questa lettera ci diceva che non ce la faceva a sopportare gli abusi all’interno dell’istituto. Ha preferito togliersi la vita piuttosto che vivere quell’orrore”.

L’ultimo anno del corso poi, Olga viene convocata dalla direzione per rinnovare l’iscrizione al partito giovanile di Stato e pagare la quota dovuta. Lei però non si era mai iscritta a nessun partito, quindi all’Accademia qualcun altro doveva aver firmato per lei negli anni precedenti. 

 “Mi è stato detto così” ricorda Olga “dritto negli occhi: quest’anno se tu non firmi e non paghi la quota non verrai ammessa agli esami finali. Mi sono ritrovata di fronte alla scelta di andare contro il sistema o di ottenere il diploma per cui avevo tanto faticato. Ho dovuto firmare e mi sono sentita subito male. Il giorno della festa per il rilascio del diploma non mi sono presentata. Non era una festa per me, perché avevo percepito nella mia vita le mani della dittatura.”

Il lavoro come insegnante 

Terminati gli studi Olga entra come insegnante presso una scuola d’arte per bambini. È un’attività che le piace molto e in cui si impegna con passione. 

Tuttavia le scuole sono per Lukashenko un mezzo fondamentale per mantenere il controllo sulla società e, dice Olga, “in realtà come insegnante  si lavora più per il regime stesso che per l’istruzione dei ragazzi”. Ricorda, ad esempio, che almeno un quadro realizzato dagli alunni doveva avere un tema propagandistico e che lei, per disobbedire, si vedeva la paga ridotta. Inoltre, a inizio settembre ogni insegnante era tenuto a fare un lavoro quasi poliziesco di documentazione: “Ti danno dei fogli con i nomi delle famiglie da andare a visitare. Il tuo compito è scoprire se ci sono bambini, se hanno la residenza lì e se stanno andando alla loro scuola di riferimento o ad un’altra”. 

Con l’avvicinarsi delle  le elezioni del 2010 Olga si rende conto che gli insegnanti sono tenuti ad occuparsi dell’intero svolgimento dell’evento, dalla registrazione dei votanti allo spoglio delle schede. È la goccia che fa traboccare il vaso: “È il regime a rubare elezioni, ma lo fa con le mani degli insegnanti. Se fossi rimasta nel sistema dell’istruzione, sarei stata parte della macchina dei brogli. Ho capito di non voler far parte di questa macchina. Il lavoro che amo, insegnare l’arte ai bambini, non c’entra niente con quel sistema in cui ero costretta ad operare.” 

Le elezioni ci saranno comunque, anche senza Olga a prestare servizio e saranno falsamente vinte ancora una volta dal presidente al suo quarto mandato. Le proteste, pacifiche, verranno represse nel sangue e sette candidati dell’opposizione saranno arrestati. Il paese è in piena crisi economica oltre che politica e come se non bastasse ad aprile scoppia una bomba nella metro di Minsk. 

Il trasferimento in Italia

Olga doveva essere su quella metro perché stava andando ad un corso di italiano che aveva iniziato a frequentare; si trattiene però con un’amica a chiacchierare e si salva. In quel periodo Olga aveva scoperto l’Italia. Tramite alcuni amici che già conoscevano il paese, se ne innamora: “Passavo tantissimo tempo insieme a questa coppia di amici ed è grazie a loro che ho conosciuto la pasta, il risotto…ho iniziato a scoprire l’Italia senza esserci ancora mai stata!” ricorda Olga. 

Dopo un paio di anni si trasferisce in Italia a convivere con un italiano con cui ha nel frattempo iniziato una relazione e con cui pensa di sposarsi. La relazione dopo qualche tempo purtroppo termina, ma non la sua vita in Italia. “Io e mio figlio siamo rimasti qui. Ero partita per creare una nuova famiglia, per motivi personali, ma con gli anni le cose in Bielorussia sono andate talmente peggiorando che abbiamo scelto di restare qui per motivi politici. In questi sette anni in Italia ho passato dei momenti molto duri. Ho pensato più volte alla possibilità di tornare in Bielorussia…ma con un figlio ormai inserito in Italia, e che appena sentiva la possibilità di rientrare nel proprio paese era letteralmente terrorizzato, non potevo fare altro che restare.

Oggi Olga vive con suo figlio sul litorale romano, fa con successo la pittrice e segue affettuosamente la crescita del figlio, ormai ventenne. Inserita perfettamente nel tessuto sociale italiano, partecipa a varie mostre sul territorio, vende i suoi quadri e insegna a dipingere a un nutrito gruppo di giovani studenti, proprio come voleva fare nel suo paese. 

La pandemia, le elezioni e l’impegno politico

L’ultimo anno è stato per lei decisivo, come per tanti altri bielorussi in patria e non. La pandemia mondiale ha avuto un ruolo importante nel mostrare tutti i punti deboli del dittatore bielorusso. Mentre il virus imperversava, Lukashenko ne negava l’esistenza, la definiva una psicosi mondiale o la liquidava come una malattia poco grave da guarirsi a colpi di vodka e sauna. “Tutto il popolo è stato abbandonato in questa crisi. I medici erano senza mascherine, senza niente. Per la prima volta le persone si sono unite e hanno cominciato ad affrontare il problema da sole, ad esempio comprando mascherine e gel per le mani da donare agli ospedali. Tutto è stato organizzato dal basso. La pandemia è stata un punto di non ritorno nella mentalità delle persone. Uniti potevamo colmare le mancanze dello Stato”. 

Nel bel mezzo della crisi sanitaria, per l’agosto 2020, sono previste le nuove elezioni presidenziali. Lukashenko, per garantirsi il sesto mandato, utilizza i metodi che gli hanno fatto conquistare i precedenti: “La campagna elettorale si è svolta nel solito clima di terrore. E ora in più c’era la pandemia” dice Olga. 

Tre dei candidati principali dell’opposizione (Tsepkalo, Babaryko, Tikhanovskij) non arrivano nemmeno al giorno del voto, il primo costretto a fuggire con la famiglia temendo per la propria incolumità e gli altri due arrestati con accuse pretestuose poco dopo aver presentato la propria candidatura. Nasce così un nuovo movimento tutto al femminile, formato dalle mogli rispettivamente di Tsepkalo e Tikhanovskij e dalla manager della campagna elettorale di Babaryko. Questa volta l’opposizione correrà unita, con Svetlana Tikhanovskaya candidata.

Poche ore dopo la chiusura dei seggi, con gli organi di Stato che davano Lukashenko vincente con un improbabile 80% di voti, migliaia di manifestanti pacifici cominciano a invadere le strade per mostrare così l’infondatezza dei risultati ufficiali. Le proteste, che proseguiranno nelle settimane e nei mesi a venire, sono qualcosa di inedito per la Bielorussia e le più estese che il paese abbia mai conosciuto.

Olga decide di voler fare la sua parte mettendo la sua arte al servizio della causa, realizzando quadri, poster e disegni a sostegno dell’opposizione nel suo paese. Uno dei suoi quadri a cui è più legata è quello di Nina Bahinskaja, anziana bielorussa simbolo del coraggio delle proteste nel paese: “Questa è la nostra immagine simbolo della protesta femminile. Per questo dipinto in Bielorussia io rischio fino a quasi tre anni e mezzo di reclusione!”. 

La sua attività l’ha resa un bersaglio del regime, ed ha eliminato ogni chance per lei e per il figlio di rientrare nel proprio paese fin quando Lukashenko sarà al potere. Per queste ragioni Olga ha scelto di fare richiesta d’asilo politico in Italia: “Da luglio abbiamo iniziato a prendere parte alle proteste con mio figlio da qua. Abbiamo preso una posizione politica attiva e questo ci mette seriamente a rischio qualora dovessimo tornare in Bielorussia. La nostra domanda di asilo politico avviene in un momento molto difficile per il nostro paese.”

FONTE originale: https://paolopirani.com/progetto/la-storia-di-olga-il-racconto-di-unesule-bielorussa/

Orsi in Sicilia

Un paio di notti fa ho sognato questo libro. Mi trovavo in un negozio, non ricordo il genere. Nella stanza c’era un uomo, giovane, ma non giovanissimo. Aveva con sé un quotidiano e un libro, ancora avvolto nella plastica. Uno di quei libri che vendono insieme ai giornali, maggiorando un po’ il prezzo del quotidiano. Di solito sono edizioni un po’ scadenti, ma questo, almeno dal mio punto di osservazione, non lo era. Mi avvicinai e vidi che il giornale era La Repubblica, e il libro La famosa invasione degli orsi in Sicilia, nell’edizione che ho io, quella che mio nonno Enrico regalò a me e a mio fratello Fabio, quando avevamo meno di dieci anni. Sorrisi, sorpreso e contento. Ricordo che provai un senso di affetto per quello sconosciuto, come mi capita a volte, quando incontro qualcuno che, discretamente, sento simile. Ricambiò il sorriso e fece un cenno al libro, come a dire “che roba, eh?”. E io risposi con un cenno che voleva dire “eh sì, una bella scelta”. E mi incamminai verso l’edicola.

With the guns

David Herbert Lawrence (1885 – 1930)

I missili russi contro le città ucraine, contro obiettivi civili, come il condominio stipato di persone centrato ieri da un missile Uragan, mi hanno fatto tornare in mente un libro piccolo ma importante che mi è capitato di leggere qualche anno fa; racchiude un racconto lungo di D.H. Lawrence (“Inghilterra, mia Inghilterra”) e un suo articolo (“With the Guns” – “Con i mortai”) pubblicato il 18 agosto 1914 sul Manchester Guardian, finora inedito in Italia.

Nell’autunno del 1913, durante un soggiorno in Baviera, Lawrence assiste per alcuni giorni a delle esercitazioni militari tedesche preparatorie alla guerra che poi scoppierà poco dopo. E’ la prima volta che vede dei mortai, i soldati che caricano i proiettili e un ufficiale che dall’alto di una torretta dirige, col binocolo, la traiettoria dei lanci, diretti oltre una collina. Lawrence è colpito dalla mancanza di umanità, dalla asetticità di questa nuova tipologia di guerra. I soldati stessi non vedono dove cadano i colpi.

I bombardamenti hanno sempre fatto parte delle guerre, ma Lawrence intuisce che le nuove tecnologie renderanno in futuro questa pratica militare preponderante e conseguentemente muterà la stessa idea di nemico: non vedendolo direttamente, non incrociando più il suo sguardo, sarà più facile ucciderlo.

Aveva indubbiamente ragione.

“The Reservists were leaving for London by the nine o’clock train. They were young men, some of them drunk. There was one bawling and brawling before the ticket window; there were two swaying on the steps of the subway shouting, and ending, “Let’s go an’ have another afore we go.” There were a few women seeing off their sweethearts and brothers, but, on the whole, the reservist had been a lodger in the town and had only his own pals. One woman stood before the carriage window. She and her sweetheart were being very matter-of-fact, cheerful, and bumptious over the parting.

“Well, so-long!” she cried as the train began to move. “When you see ‘em let ‘em have it.”

“Ay, no fear,” shouted the man, and the train was gone, the man grinning. I thought what it would really be like, “when he saw ‘em.”

Last autumn I followed the Bavarian army down the Isar valley and near the foot of the Alps. Then I could see what war would be like – an affair entirely of machines, with men attached to the machines as the subordinate part thereof, as the butt is the part of a rifle.

I remember standing on a little round hill one August afternoon. There was a beautiful blue sky, and white clouds from the mountains. Away on the right, amid woods and corn-clad hills, lay the big Starnberg lake. This is just a year ago, but it seems to belong to some period outside of time.

On the crown of the little hill were three quick-firing guns, with the gunners behind. At the side, perched up on a tiny platform at the top of a high pair of steps, was an officer looking through a fixed spy-glass. A little further behind, lower down the hill, was a group of horses and soldiers.

Every moment came the hard, tearing hideous voice of the German command from the officer perched aloft, giving the range to the guns; and then the sharp cry, “Fire!” There was a burst, something in the guns started back, the faintest breath of vapour disappeared. The shots had gone.

I watched, but I could not see where they had gone, nor what had been aimed at. Evidently they were directed against an enemy a mile and a half away, men unseen by any of the soldiers at the guns. Whether the shot they fired hit or missed, killed or did not touch, I and the gun-party did not know.

Only the officer was shouting the range again, the guns were again starting back, we were again staring over the face of the green and dappled, inscrutable country into which the missiles sped unseen.

What work was there to do? – only mechanically to adjust the guns and fire the shot. What was there to feel? – only the unnatural suspense and suppression of serving a machine which, for ought we knew, was killing our fellow-men, whilst we stood there, blind, without knowledge or participation, subordinate to the cold machine. This was the glamour and the glory of the war: blue sky overhead and living green country all around, but we, amid it all, a part in some iron insensate will, our flesh and blood, our soul and intelligence shed away, and all that remained of us a cold, metallic adherence to an iron machine. There was neither ferocity nor joy nor exultation nor exhilaration nor even quick fear: only a mechanical, expressionless movement.

And this is how the gunner would “let ‘em have it.” He would mechanically move a certain apparatus when he heard a certain shout. Of the result he would see and know nothing. He had nothing to do with it.

Then I remember going at night down a road, whilst the sound of guns thudded continuously. And suddenly I started, seeing the bank of the road stir. It was a mass of scarcely visible forms, lying waiting for a rush. They were lying under fire, silent, scarcely stirring, a mass. If one of the shells that were supposed to be coming had dropped among them it would have burst a hole in the mass. Who would have been torn, killed, no one would have known. There would just have been a hole in the living shadowy mass; that was all. Who it was did not matter. There were no individuals, and every individual soldier knew it. He was a fragment of a mass, and as a fragment of a mass he must live and die or be torn. He had no rights, no self, no being. There was only the mass lying there, solid and obscure along the bank of the road in the night.

This was how the gunner “would let ‘em have it.” A shell would fall into this mass of vulnerable bodies, there would be a torn hole in the mass. This would be his “letting ‘em have it.”

And I remember a captain of the bersaglieri who talked to me in the train in Italy when he had come back from Tripoli. The Italian soldier, he said, was the finest soldier in the world at a rush. But – and he spoke with a certain horror that cramped his voice – when it came to lying there under the Snyder fire you had to stand behind them with a revolver. And I saw he could not get beyond the agony of this.

“Well,” I said, “that is because they cannot feel themselves parts of a machine. They have all the old natural courage, when one rushes at one’s enemy. But it is unnatural to them to lie still under machine-fire. It is unnatural to anybody. War with machines, and the machine predominant, is too unnatural for an Italian. It is a wicked thing a machine, and your Italians are too naturally good. They will do anything to get away from it. Let us see our enemy and go for him. But we cannot endure this taking death out of machines, and giving death out of machines, our blood cold, without any enemy to rise against.”

guns 1914
A British artilleryman pulling the Lanyard to fire an 8 inch Howitzer in France, circa 1916. Photograph: PA

I remember also standing on a little hill crowned by a white church. This hill was defended, surrounded by a trench half-way down. In this trench stood the soldiers side by side, down there in the earth, a great line of them.

The night came on. Suddenly, on the other side, high up in the darkness, burst a beautiful greenish globe of light, and then came into being a magic circle of countryside set in darkness, a greenish jewel of landscape, splendid bulk of trees, a green meadow, vivid. The ball fell and it was dark, and in one’s eye remained treasured the little vision that had appeared far off in the darkness. Then again a light ball burst and sloped down. There was the white farmhouse with the wooden, slanting roof, the green apple trees, the orchard paling, a jewel, a landscape set deep in the darkness. It was beautiful beyond belief. Then it was dark. Then the searchlights suddenly sprang upon the countryside, revealing the magic, fingering everything with magic, pushing the darkness aside, showing the lovely hillsides, the sable bulks of trees, the pallor of corn. A searchlight was creeping at us. It slid up our hill. It was upon us; we turned out backs to it, it was unendurable. Then it was gone.

Then out of a little wood at the foot of the hill came the intolerable crackling and bursting of rifles. The men in the trenches returned fire. Nothing could be seen. I thought of the bullets that would find their marks. But whose bullets? And what mark. Why must I fire off my gun in the darkness towards a noise? Why must a bullet come out of the darkness, breaking a hole in me? But better a bullet than the laceration of a shell, if it came to dying. But what is it all about? I cannot understand; I am not to understand. My God, why am I a man at all, when this is all, this machinery piercing and tearing?

It is a war of artillery, a war of machines, and men no more than the subjective material of the machine. It is so unnatural as to be unthinkable.

Yet we must think of it.”

“Dovrei spiegarti perché sono contro il fascismo”

“Tra il 1921 e il 1927 ebbi varie occasioni di recarmi a Mosca per partecipare, quale membro di delegazioni comuniste italiane, a congressi e riunioni. Ciò che mi colpì nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotzky, era l’assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz’altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile. (…)
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Nel Maggio 1927, in rappresentanza del Partito Comunista italiano, partecipai insieme a Togliatti a una sessione straordinaria dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista. Togliatti partì da Parigi dove dirigeva la segreteria politica del Partito, io dall’Italia dove ne dirigevo l’organizzazione interna. Ci incontrammo a Berlino e proseguimmo per Mosca.”
………
L’incontro ha inizio e Silone si rende conto che in realtà la riunione ha uno scopo ben preciso: la messa in accusa di Trotzky e i suoi. Stalin chiede ai vari rappresentanti dei partiti comunisti europei presenti di firmare un documento di condanna. Stalin accusa Trotzky di aver inviato all’Ufficio politico del Partito Comunista russo un documento di carattere controrivoluzionario. Silone non ha letto il documento accusato. Ne parla con Togliatti, che gli confessa di non averlo letto neanche lui.
………….
“(…) dopo essermi consultato con Togliatti, mi scusai con i presenti di essere arrivato in ritardo e di non aver avuto la possibilità di prendere visione del documento da giudicare. << Veramente >>, dichiarò candidamente il delegato tedesco Thälmann <<neppure noi conosciamo quel documento>>. A quella risposta, fin troppo chiara, io preferii diffidare delle mie orecchie e ripetei con altre parole la mia obbiezione. << Può darsi benissimo che il documento di Trotzky, di cui è questione, sia condannabile, ma evidentemente noi non lo possiamo condannare prima di averlo letto>>. << Neppure noi >>, ripeté Thälmann, << abbiamo letto il documento, neppure la maggioranza dei delegati qui presenti, eccetto i delegati russi>>.
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(…) A quel punto intervenne Stalin. Egli era in piedi, a un lato della sala, e appariva il solo dei presenti calmo e sereno. << L’Ufficio politico del Partito >> disse Stalin << ha ritenuto che non fosse conveniente tradurre e distribuire il documento di Trotzky ai delegati dell’Esecutivo internazionale perché in esso vi sono varie allusioni alla politica dello Stato sovietico in Cina >>.
Ernst Thälmann mi chiese se quella spiegazione di Stalin mi sembrasse esauriente. << Non contesto il diritto dell’Ufficio politico del Partito comunista russo di tener segreto un qualsiasi documento >>, dissi. << Ma non capisco che altri possano essere invitati a condannare un documento sconosciuto >>.”
…………………
A questo punto Stalin dichiara che il documento di condanna può essere presentato solo se tutti i delegati sono d’accordo. Mentre i delegati finlandesi e tedeschi cominciano a criticare aspramente i due delegati italiani, Stalin incarica il Bulgaro Kolaroff di “passare la serata con i due compagni italiani per spiegare ad essi la nostra situazione interna”. Kolaroff spiega a Silone e a Togliatti che leggere il documento è inutile; si tratta di prendere posizione, senza chiedersi altro. I due italiani rimangono perplessi.
……………….
<< Mi sono spiegato chiaramente? >> egli chiese rivolgendosi direttamente a me.
<< Certo, assai chiaramente >> risposi.
<< Ti ho persuaso? >>
<< No >> gli risposi.
<< Perché no? >> egli volle sapere.
<< Dovrei spiegarti perché sono contro il fascismo >>.
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Kolaroff finse di indignarsi, mentre Togliatti espresse il suo parere in termini più misurati, ma non meno decisi. << Non ci si può dichiarare per la maggioranza o la minoranza pregiudizialmente >> egli disse. << Non si può ignorare il fondo della questione politica >>.
Kolaroff sorrise. << Siete ancora troppo giovani. Non avete ancora capito cosa sia la politica >>.
…………
L’indomani mattina, alla ripresa dell’Esecutivo, Silone e Togliatti confermano la loro posizione. Non possono condannare lo scritto di Trotzky senza averlo letto. Esprimono la stessa posizione anche il delegato francese Albert Treint e quello svizzero Humbert-Droz. Stalin ritira il documento e si passa ad altri argomenti.
Silone e Togliatti ripartono per Berlino. Pochi giorni dopo leggono che l’Esecutivo dell’Internazionale Comunista ha condannato il documento di Trotzky, all’unanimità.
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Silone e Togliatti capiscono che i comunisti russi hanno aspettato la partenza dei delegati stranieri per procedere come previsto, falsificando la loro posizione. La fede politica di Silone comincia, quel giorno, a entrare in crisi. Inizia un travaglio interiore che lo porta ad allontanarsi dal partito. Togliatti invece resterà.
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Nel 1931 Ignazio Silone viene espulso.
Anche il francese Albert Treint e lo svizzero Humbert-Droz usciranno dal partito. Lev Trotzky dovrà fuggire in Messico, dove nel 1940 viene raggiunto e ucciso da un sicario di Stalin.

TALASSO

(pubblicato sulla rivista Salmace – QUI )

di Marco Tosi

Mi misi in viaggio alle sei del mattino, decisa a sbrigarmi e concludere il lavoro in giornata. Non era la prima volta che mi affidavano un topic-31 e sapevo per esperienza che più tempo dedicavo alla faccenda, maggiori erano i rischi. Arrivai al check-point verso le nove. I due militari all’ingresso dell’area chiusa esaminarono i miei documenti, indicarono dove lasciare l’auto e me ne assegnarono una di servizio, schermata e a trazione elettrica. Il più anziano specificò che era una ecodealer e mi chiese se ne avevo mai provata una. Ne avevo guidate a decine, ma sono abituata a questo tipo di domande da parte degli uomini, per cui abbozzai un sorriso e risposi che sì, ne avevo guidata una, una volta, e mi ci ero trovata bene. L’uomo mi ricordò alcune delle sue funzionalità principali, ascoltai con pazienza. Mentre mi infilavo la tuta asettica il più giovane rilesse il mio passi, mi guardò negli occhi: Signorina Ferzetti, inutile dirle che se entro otto ore non è tornata la veniamo a cercare, lo sa, vero?
– Non ho intenzione di rimanerci così tanto, e posso darle il contatto beeper, non è un problema – risposi.
– No, questo è meglio evitarlo, potrebbe influire sulla sua attività di rilevamento. Verremo noi, previo tracciamento e localizzazione – aggiunse, indicando un piccolo drone azzurro sospeso sulle nostre teste. L’apparecchio ruotò su se stesso e una piccola luce si accese per un attimo. L’ecodealer rispose facendo lampeggiare i fari. 
Entrai nell’area di sicurezza, i due uomini richiusero il cancello alle mie spalle. Ero sola, e percorrevo l’unica strada di collegamento con il tessuto urbano ormai morto di Talasso, distante una decina di chilometri. 

L’intera area chiusa e la città erano disabitate da più di vent’anni. Non ci ero mai stata ma avevo visto molte immagini del periodo pre-incidente e un paio di vecchi telegiornali locali. Una cittadina con centomila persone, in base all’ultimo censimento. L’incidente se le era portate via, in un’ora. Quello di Talasso non era stato l’unico incidente negli ultimi anni, ma senz’altro il più massiccio, il più venefico e mortale. E il più incomprensibile. A Talasso e dintorni erano morti tutti, bambini, ragazzi, adulti, anziani, con i loro animali da compagnia, e poi gli animali selvatici, gli uccelli, gli insetti, le piante, gli alberi. 
Poi, gradualmente, le cose erano cambiate e  l’aria era tornata respirabile, le falde acquifere risultavano pulite, l’erba aveva ricominciato a rivestire gli spazi fra le case. Il governo aveva perciò deciso di programmare una serie di analisi periodiche, per almeno cinque anni, con l’obiettivo di ripopolare, un giorno, l’intera area. E qui entravo in ballo io. 

Consultai la mappa stradale di Talasso e mi fermai in Piazza Mazzini, proprio al centro della città. Quando disattivai l’ecodealer il silenzio si fece assoluto. Rilessi la sintesi del topic-31. Anche nelle informazioni riportate nella scheda, la domanda che avevo posto ai miei superiori non trovava risposta: dove erano finiti tutti? Non era stato trovato nessun corpo. Le fotografie aeree scattate nei giorni successivi all’incidente parlavano chiaro: le strade erano deserte, e così le automobili, i parchi pubblici, i cortili delle scuole, i parcheggi dei centri commerciali, i piazzali esterni delle chiese. Le ipotesi formulate negli anni erano tante, ma nessuna realmente plausibile.
Percorsi a piedi Corso Roma, fino al municipio. Negli altri sopralluoghi che avevo svolto, in altre città, il paesaggio era stato ben diverso. Gli scheletri erano ancora lì, ci avevo fatto l’abitudine. A modo loro una testimonianza concreta. A Talasso era differente, l’intera architettura urbana, gli edifici pubblici, le case private, l’ospedale, il teatro, tutto mi appariva come un immenso set cinematografico abbandonato, dove la vita era passata e andata via, senza fermarsi.
All’angolo con via Nazionale un topolino attraversò il marciapiede, un ottimo segno. Annotai felice luogo e orario sulla scheda di rilevazione, il mio sopralluogo poteva dirsi già un successo. Lo stesso topo, o forse era un altro, riapparve per alcuni secondi, e si infilò in un portone aperto, lo seguii. Il palazzo era alto una decina di piani, calcolai fossero una ventina di appartamenti. A occhio e croce un centinaio di persone, evaporate, chissà come, chissà dove. 

Poi lo vidi, non ci avevo fatto caso. Era coperto dall’edera, ma dietro le foglie il metallo e il vetro del citofono luccicavano. Qualcosa di così familiare. Contai i cognomi, erano venticinque appartamenti, corressi la nota sulla scheda. Leggere i cognomi mi mise una grande malinconia: Pecci, Gualtieri, Lagrange, Mirelli, De Lorenzis, Busatto, Pascoli, Lojacono, Ferzetti… mi fermai, sorpresa. Il mio cognome non è così diffuso. Strofinai la targhetta, lessi meglio: Ferzetti-Serra. Non mi dicevano niente. Diedi una piccola strofinata anche alla targhetta accanto, che una volta pulita risultò essere Lojacono Paolo. Senza neanche rendermene conto premetti il citofono, un automatismo. Un breve ronzio, isolato. 

Feci un passo indietro. Un ronzio elettrico, dopo più di vent’anni. Una carica elettrostatica, forse. Presi la scheda, era qualcosa da annotare. Mentre scrivevo la voce mi raggiunse chiara: 
– Chi è? 
Mi voltai, feci un giro su me stessa.
– Sono la signora Ferzetti – risposi, attonita.
– Ah buongiorno, signora, ha dimenticato le chiavi?
Non sapevo come rispondere, anzi, in quel momento non sapevo neanche chi fossi.
– Parlo con Lojacono?
– Beh sì, ha suonato lei, mi pare. Se ha sbagliato tasto non c’è problema. Comunque le apro.
– Grazie.
Il portone di metallo vibrò. Entrai. Salii per le scale, raggiunsi l’appartamento dei Lojacono, era completamente vuoto. Uscii, raggiunsi quello dei Ferzetti-Serra, il portone era accostato, le finestre aperte, un velo di polvere ovunque.
Provai dai Lagrange, stessa situazione. Per scrupolo, o per un senso di rispetto, non so neanche io il motivo, visitai tutti gli appartamenti dello stabile, senza trovare nessuno, nessun corpo, o segno di vita.
Poi tornai al citofono, premetti uno dopo l’altro i tasti, mi risposero tutti. Quando l’ultimo condomino smise di parlare tornò il silenzio. Ero impietrita. Fu in quel momento che notai l’ultimo pulsante, l’unico che non avessi premuto. Mi rispose una bambina. Si chiamava Arianna. Mi disse che i genitori erano usciti, ma tornavano subito. Le dissi che ero del palazzo e le chiesi se poteva scendere a darmi una mano con la spesa, mi rispose che l’avrebbe fatto volentieri, ma non aveva le chiavi, doveva aspettare il ritorno dei genitori. La ringraziai e le dissi di non preoccuparsi, che avrei risolto in un altro modo. Lei mi disse che però nel frattempo potevamo parlare un po’. Risposi di sì.
Mi raccontò la sua giornata, parlò della sua scuola, della festa che stava organizzando per la settimana successiva, per il suo compleanno. Mi feci forza e le chiesi la data e l’anno, e sì, era come immaginavo.
A malincuore salutai Arianna, presi l’ecodealer e mi spostai in un altro quartiere. Suonai ad altri citofoni, parlai con decine di persone, qualcuno mi trattò con fastidio, altri con gentilezza. Entrai nei palazzi, salii le scale, visitai i loro appartamenti deserti, impolverati, consumati dall’umidità, aprii le finestre, feci entrare il sole, poi scesi nuovamente, mi spostai di quartiere in quartiere, ripetendo le stesse azioni, con lo stesso risultato. Mi fermai di nuovo in Piazza Mazzini, su una panchina. Controllai l’orologio, e mi resi conto che avevo attraversato la città per più di cinque ore. L’ecodealer lampeggiò. Guardai in alto, il drone azzurro mi osservava. Dovevo tornare al check point, recuperare la mia auto e tornare a casa. Presi la scheda di rilevamento e completai la relazione: topic-31 città di Talasso. Buona qualità dell’aria, riscontrata presenza diffusa di erba e di un piccolo roditore. Nient’altro da segnalare.


L’illustrazione è stata realizzata utilizzando un’app che sfrutta l’Intelligenza Artificiale per generare, a partire da un testo, delle immagini.

Un krankes Volk

Qualche giorno fa ho finito di leggere Kaputt, di Curzio Malaparte.

Il romanzo, scritto tutto in prima persona, è qualcosa di ibrido, a metà tra il reportage di guerra e la pura invenzione. E’ di fatto un lungo dialogo tra l’autore e una moltitudine di persone scosse, logore, disfatte da anni di guerra.

Il libro viene pubblicato nel 1944. Avevo iniziato a leggerlo perché cercavo un testo sulla guerra, e da quanto sapevo il libro era una lunga testimonianza, un viaggio compiuto da Malaparte in Serbia, Bosnia, Croazia, Germania, Polonia, Romania, Svezia, Finlandia, Ucraina, Russia, tra il 1941 e il 1943.

Lo cercavo perché penso che leggere articoli, guardare i telegiornali e i dibattiti in tv, ascoltare la radio sono cose utili a conoscere, ma la letteratura ti permette anche, o più facilmente, di riflettere. E poi, in fondo, tra una comunicazione possibilmente manipolata e qualcosa di fittizio come un romanzo, il secondo è più sincero, in quanto a manipolazione.

Ci ho messo tanto a finire Kaputt. In alcuni momenti ho dovuto prendere delle pause. Malaparte non ti risparmia niente. Ti porta per mano sottoterra, e illumina con una candela, non di più, l’orrore. Te lo racconta, con crudezza ma con moderazione; lo sa che il lettore poi completa il puzzle, unisce i punti, annerisce le parti indicate e riconosce la sagoma da indovinare.

Ho trascritto un piccolo brano, innocuo. L’ho fatto per un amico che ha sposato una donna di L’viv, Leopoli.

Kurt Erich Suckert (Curzio Malaparte) – Prato, 9 giugno 1898 – Roma, 19 luglio 1957

(…) Axel Munthe alzò il viso, un’ombra improvvisa era scesa sulla sua fronte. Mi disse che non poteva dormire, che la guerra gli aveva ammazzato il sonno: trascorreva le notti in veglia angosciosa, ascoltando il grido del vento fra gli alberi, la voce lontana del mare.

Spero – mi disse, – che non siate venuto a parlami della guerra.

– Non vi parlerò della guerra – risposi.

– Grazie, – disse Munthe. E a un tratto mi domandò se era vero che i tedeschi fossero così terribilmente crudeli.

– La loro crudeltà è fatta di paura – risposi, – son malati di paura. Sono un popolo malato, un krankes Volk.

– Sì, un krankes Volk, – disse Munthe battendo la punta del bastone sul pavimento: e dopo un lungo silenzio mi domandò se fosse vero che i tedeschi erano così assetati di sangue e di distruzione.

– Hanno paura – risposi, – hanno paura di tutto e di tutti, ammazzano e distruggono per paura. Non già che temano la morte: nessun tedesco, uomo, donna, vecchio, bambino, teme la morte. E nemmeno hanno paura di soffrire. In un certo senso si può dire che amano il dolore. Ma hanno paura di tutto ciò che è vivo, di tutto ciò che è vivo al di fuori di loro, e anche di tutto ciò che è diverso da loro. Il male di cui soffrono è misterioso. Hanno paura sopra tutto degli esseri deboli, degli inermi, dei malati, delle donne, dei bambini. Hanno paura dei vecchi. La loro paura ha sempre suscitato in me una profonda pietà. Se l’Europa avesse pietà di loro, forse i tedeschi guarirebbero del loro orribile male.

– Dunque sono feroci, dunque è vero che massacrano la gente senza alcuna pietà? – m’interruppe Munthe picchiando con impazienza il bastone sul pavimento.

– Sì, è vero, – risposi – ammazzano gli inermi, impiccano gli ebrei agli alberi nelle piazze dei villaggi, li bruciano vivi dentro le loro case, come topi, fucilano i contadini e gli operai nei cortili del kolkhoz e delle officine. Li ho visti ridere, mangiare, dormire, all’ombra dei cadaveri dondolanti dai rami degli alberi.

– E’ un krankes Volk, – disse Munthe togliendosi gli occhiali neri per pulirne con cura i cristalli col fazzoletto. Aveva abbassato le palpebre. Non potevo vedere i suoi occhi. Poi mi domandò se fosse vero che i tedeschi ammazzavano gli uccelli.

– No, non è vero, – risposi. – Non hanno il tempo di occuparsi degli uccelli, hanno appena il tempo di occuparsi degli uomini. Massacrano gli ebrei, gli operai, i contadini, incendiano le città e i villaggi con furia selvaggia, ma non ammazzano gli uccelli. Ah, quanti bellissimi uccelli ha la Russia! Più belli, forse, di quelli di Capri.

– Più belli di quelli di Capri? – domandò Axel Munthe con voce irritata.

– Più belli, più felici, – risposi. – Vi sono innumerevoli famiglie di bellissimi uccelli, in Ucraina. Volano a migliaia cinguettando fra le foglie delle acacie, si posano lievi sugli argentei rami delle betulle, sulle spighe di grano, sulle ciglia d’oro dei girasoli, per beccarne i semi nei loro grandi occhi neri.

Cantano senza posa in fondo alla voce del cannone, nel crepitio delle mitragliatrici, dentro l’alto rombo degli aerei sull’immensa pianura ucraina. Si posano sulle spalle dei soldati, sulle sedie, sulle criniere dei cavalli, sugli affusti dei pezzi, sulle canne dei fucili, sulle torrette dei Panzer, sulle scarpe dei morti.

Non hanno paura dei morti. Sono uccelli piccoli, vispi, allegri, alcuni son grigi, altri verdi, altri rossi, altri ancora son gialli. Alcuni hanno rosso o turchino soltanto il petto, altri soltanto il collo, altri soltanto la coda. alcuni son bianchi con la gola azzurra, e ne ho visti alcuni piccolissimi e orgogliosi, tutti bianchi, immacolati.

La mattina all’alba cominciano a cantare dolcemente fra il grano, e i tedeschi levano la testa dal triste sonno ad ascoltare il loro canto felice. Volano a migliaia sui campi di battaglia del Dniester, del Dnieper, del Don, cinguettando liberi e lieti, e non hanno paura della guerra, non hanno paura di Hitler, delle SS, della Gestapo, non si fermano sui rami a contemplare la strage, ma si librano nell’azzurro cantando, seguono dall’alto gli eserciti in marcia nella sterminata pianura. ah, son proprio belli, gli uccelli dell’Ucraina.

Axel Munthe alzò il viso, si tolse gli occhiali neri, mi guardò con quei suoi occhi vivi e maliziosi, e sorrideva: – Meno male che i tedeschi non ammazzano gli uccelli – disse, – sono proprio felice che non ammazzino gli uccelli.

Axel Munthe (1857-1949)

Con Febo
Cimitero acattolico, 2022 – foto Marco Tosi

Under the Volcano

In the late spring of 1939, with the war already clearly on the way, Tove Jansson travelled alone to Italy to study the country and its rich art – and to distance herself from the threat of the war. The trip’s influence can be seen in the first Moomin chapter book and its illustrations: Comet in Moominland (1946) carries elements of the dramatic landscapes of Vesuvius the volcano and the looming eruption of the war.

She wrote home after seeing the volcano close up:

All over were smouldering cracks yellow-green with sulphur, with rumbling underfoot as it got hotter and hotter. A little newborn crater, four days old, was sending out red streams of lava right to our feet and behind all this the sun was sinking amid the brown fumes.”

Tove Jansson wrote the comet story after the Winter War between the Soviet Union and Finland. With a focus on the theme of strength and ability to live and manage during looming catastrophes it was quite an exceptional children’s book.

Vesuvius erupted in March 1944, right after the Allied armies had taken Naples.


Take a look at the Moomin gallery on tovejansson.com for more interesting illustrations.

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(fonte e testo: https://www.facebook.com/tovejanssonofficial )