L’agnello

Il tono era piuttosto affannato, allarmato e urgente, impossibile rimandare. Uscii dal bagno: “sì Papà, che succede?” La spiegazione fu veloce e sintetica, dieci minuti dopo lo aspettavo in auto di fronte al cancello del giardino, su Via Romagnoli. Partimmo subito, direzione Marana. Mentre scendevamo per via Ugo Ojetti, mi voltai a guardarlo: Papà era piuttosto sudato e ancora in tenuta da bicicletta, scarpe da ginnastica, pantaloni della tuta blu stinti, k-way e cappelletto di lana in testa, calzini a risalire sui pantaloni.
Aveva sentito il richiamo percorrendo la stradina che costeggiava la marana, era sceso a guardare di che si trattasse, inoltrandosi tra le robinie e le ortiche, finché non aveva visto il più piccolo, tutto nero. Era sul ciglio dell’acqua e belava come un ossesso. Solo allora ne aveva scorto un altro, affiorare con la punta del muso dall’acqua melmosa; aveva inforcato la bicicletta, in cerca di rinforzi.

Quello nell’acqua era più grosso, di colore chiaro. Il piccolo continuava a belare da spaccare le orecchie, seppur allontanandosi man mano che ci avvicinavamo. Papà era preoccupato, l’ansia di non fare in tempo. Mi chiese di tenerlo per un braccio, mentre si calava in acqua. Il problema maggiore era dato dalla scivolosità della piccola riva, in quel punto piuttosto alta. Era quasi impossibile rimanere fermi, un fango tanto viscido quanto puzzolente.
Mi attaccai all’albero più vicino e strinsi forte la mano di Papà, mentre si calava provando a raggiungerlo, immergendo un piede nel fango. La situazione era drammatica e ridicola allo stesso tempo: io attaccato saldamente ad un albero, proteso verso la marana; Papà attaccato alla mia mano destra, quasi orizzontale sul pelo dell’acqua; l’agnello, gli occhi fuori dalle orbite, se possibile ancora più terrorizzato di prima, affondava e riemergeva ritmicamente.
Mentre il più piccolo belava incessantemente, il più grande belava a tratti. Si fermava, ricominciava, sempre più forte, ma per brevi momenti. Se di messaggi si trattava, era evidente che stessero dicendo cose diverse, comprensibilmente.

Dopo qualche tentativo infruttuoso, cambiammo strategia, invertendo i ruoli. Papà si ancorò con l’interno del gomito ad un albero stringendomi la mano sinistra, io mi calai, riuscendo dopo una decina di minuti ad agguantare l’agnello per la collottola, come fosse stato un cane. Una volta preso il grande, stranamente tranquillo, ci ponemmo il problema del più piccolo. Cercammo di avvicinarlo, ma fu impossibile. Si inoltrò nella boscaglia della marana e sparì alla nostra vista.
Cosa fare del nostro? Lasciarlo lì era escluso, data la sua tendenza a cascare nelle acque sbagliate. Lo portammo in macchina, completamente zuppo, anche noi non eravamo da meno.
Proposi di cercare il gregge, doveva essere da qualche parte.
Papà si diresse lungo la strada principale, scorgemmo delle pecore su una collina, al di là di un cancello che chiudeva una recinzione. Il cancello era bloccato da una corda; sciogliemmo il nodo ed entrammo. Fermammo la macchina in cima ad una salita, su uno spiazzo fangoso, delimitato da alcune costruzioni basse, in mattoni e tetto di lamiera.
Silenzio assoluto. Nessuno in vista. Papà fece per scendere.
In un attimo la macchina fu circondata da non meno di una dozzina di pastori maremmani, bianchi e grossi come vitelli. Alcuni abbaiavano furiosamente, altri si lanciavano sui finestrini, ringhiando e mostrando i denti. Mi girai di scatto a controllare che i finestrini di dietro fossero chiusi, l’agnello urlava spaventato a morte.
Dopo un minuto di quel baccano, constatato che nessun pastore umano fosse presente, decidemmo di tornare indietro. I cani non ci seguirono fino al cancello, limitandosi a rincorrere la macchina per un po’, latrando e ringhiando.
Una volta a casa, Papà andò a fare una doccia, visibilmente spossato. Prima però chiudemmo l’agnello in garage, dove ricominciò a belare. Stanco e felice dell’impresa, mi sedetti su una sedia in giardino e cominciai a chiedermi come dargli del latte.
Ma questa è un’altra storia.