Un krankes Volk

Qualche giorno fa ho finito di leggere Kaputt, di Curzio Malaparte.

Il romanzo, scritto tutto in prima persona, è qualcosa di ibrido, a metà tra il reportage di guerra e la pura invenzione. E’ di fatto un lungo dialogo tra l’autore e una moltitudine di persone scosse, logore, disfatte da anni di guerra.

Il libro viene pubblicato nel 1944. Avevo iniziato a leggerlo perché cercavo un testo sulla guerra, e da quanto sapevo il libro era una lunga testimonianza, un viaggio compiuto da Malaparte in Serbia, Bosnia, Croazia, Germania, Polonia, Romania, Svezia, Finlandia, Ucraina, Russia, tra il 1941 e il 1943.

Lo cercavo perché penso che leggere articoli, guardare i telegiornali e i dibattiti in tv, ascoltare la radio sono cose utili a conoscere, ma la letteratura ti permette anche, o più facilmente, di riflettere. E poi, in fondo, tra una comunicazione possibilmente manipolata e qualcosa di fittizio come un romanzo, il secondo è più sincero, in quanto a manipolazione.

Ci ho messo tanto a finire Kaputt. In alcuni momenti ho dovuto prendere delle pause. Malaparte non ti risparmia niente. Ti porta per mano sottoterra, e illumina con una candela, non di più, l’orrore. Te lo racconta, con crudezza ma con moderazione; lo sa che il lettore poi completa il puzzle, unisce i punti, annerisce le parti indicate e riconosce la sagoma da indovinare.

Ho trascritto un piccolo brano, innocuo. L’ho fatto per un amico che ha sposato una donna di L’viv, Leopoli.

Kurt Erich Suckert (Curzio Malaparte) – Prato, 9 giugno 1898 – Roma, 19 luglio 1957

(…) Axel Munthe alzò il viso, un’ombra improvvisa era scesa sulla sua fronte. Mi disse che non poteva dormire, che la guerra gli aveva ammazzato il sonno: trascorreva le notti in veglia angosciosa, ascoltando il grido del vento fra gli alberi, la voce lontana del mare.

Spero – mi disse, – che non siate venuto a parlami della guerra.

– Non vi parlerò della guerra – risposi.

– Grazie, – disse Munthe. E a un tratto mi domandò se era vero che i tedeschi fossero così terribilmente crudeli.

– La loro crudeltà è fatta di paura – risposi, – son malati di paura. Sono un popolo malato, un krankes Volk.

– Sì, un krankes Volk, – disse Munthe battendo la punta del bastone sul pavimento: e dopo un lungo silenzio mi domandò se fosse vero che i tedeschi erano così assetati di sangue e di distruzione.

– Hanno paura – risposi, – hanno paura di tutto e di tutti, ammazzano e distruggono per paura. Non già che temano la morte: nessun tedesco, uomo, donna, vecchio, bambino, teme la morte. E nemmeno hanno paura di soffrire. In un certo senso si può dire che amano il dolore. Ma hanno paura di tutto ciò che è vivo, di tutto ciò che è vivo al di fuori di loro, e anche di tutto ciò che è diverso da loro. Il male di cui soffrono è misterioso. Hanno paura sopra tutto degli esseri deboli, degli inermi, dei malati, delle donne, dei bambini. Hanno paura dei vecchi. La loro paura ha sempre suscitato in me una profonda pietà. Se l’Europa avesse pietà di loro, forse i tedeschi guarirebbero del loro orribile male.

– Dunque sono feroci, dunque è vero che massacrano la gente senza alcuna pietà? – m’interruppe Munthe picchiando con impazienza il bastone sul pavimento.

– Sì, è vero, – risposi – ammazzano gli inermi, impiccano gli ebrei agli alberi nelle piazze dei villaggi, li bruciano vivi dentro le loro case, come topi, fucilano i contadini e gli operai nei cortili del kolkhoz e delle officine. Li ho visti ridere, mangiare, dormire, all’ombra dei cadaveri dondolanti dai rami degli alberi.

– E’ un krankes Volk, – disse Munthe togliendosi gli occhiali neri per pulirne con cura i cristalli col fazzoletto. Aveva abbassato le palpebre. Non potevo vedere i suoi occhi. Poi mi domandò se fosse vero che i tedeschi ammazzavano gli uccelli.

– No, non è vero, – risposi. – Non hanno il tempo di occuparsi degli uccelli, hanno appena il tempo di occuparsi degli uomini. Massacrano gli ebrei, gli operai, i contadini, incendiano le città e i villaggi con furia selvaggia, ma non ammazzano gli uccelli. Ah, quanti bellissimi uccelli ha la Russia! Più belli, forse, di quelli di Capri.

– Più belli di quelli di Capri? – domandò Axel Munthe con voce irritata.

– Più belli, più felici, – risposi. – Vi sono innumerevoli famiglie di bellissimi uccelli, in Ucraina. Volano a migliaia cinguettando fra le foglie delle acacie, si posano lievi sugli argentei rami delle betulle, sulle spighe di grano, sulle ciglia d’oro dei girasoli, per beccarne i semi nei loro grandi occhi neri.

Cantano senza posa in fondo alla voce del cannone, nel crepitio delle mitragliatrici, dentro l’alto rombo degli aerei sull’immensa pianura ucraina. Si posano sulle spalle dei soldati, sulle sedie, sulle criniere dei cavalli, sugli affusti dei pezzi, sulle canne dei fucili, sulle torrette dei Panzer, sulle scarpe dei morti.

Non hanno paura dei morti. Sono uccelli piccoli, vispi, allegri, alcuni son grigi, altri verdi, altri rossi, altri ancora son gialli. Alcuni hanno rosso o turchino soltanto il petto, altri soltanto il collo, altri soltanto la coda. alcuni son bianchi con la gola azzurra, e ne ho visti alcuni piccolissimi e orgogliosi, tutti bianchi, immacolati.

La mattina all’alba cominciano a cantare dolcemente fra il grano, e i tedeschi levano la testa dal triste sonno ad ascoltare il loro canto felice. Volano a migliaia sui campi di battaglia del Dniester, del Dnieper, del Don, cinguettando liberi e lieti, e non hanno paura della guerra, non hanno paura di Hitler, delle SS, della Gestapo, non si fermano sui rami a contemplare la strage, ma si librano nell’azzurro cantando, seguono dall’alto gli eserciti in marcia nella sterminata pianura. ah, son proprio belli, gli uccelli dell’Ucraina.

Axel Munthe alzò il viso, si tolse gli occhiali neri, mi guardò con quei suoi occhi vivi e maliziosi, e sorrideva: – Meno male che i tedeschi non ammazzano gli uccelli – disse, – sono proprio felice che non ammazzino gli uccelli.

Axel Munthe (1857-1949)

Con Febo
Cimitero acattolico, 2022 – foto Marco Tosi

Under the Volcano

In the late spring of 1939, with the war already clearly on the way, Tove Jansson travelled alone to Italy to study the country and its rich art – and to distance herself from the threat of the war. The trip’s influence can be seen in the first Moomin chapter book and its illustrations: Comet in Moominland (1946) carries elements of the dramatic landscapes of Vesuvius the volcano and the looming eruption of the war.

She wrote home after seeing the volcano close up:

All over were smouldering cracks yellow-green with sulphur, with rumbling underfoot as it got hotter and hotter. A little newborn crater, four days old, was sending out red streams of lava right to our feet and behind all this the sun was sinking amid the brown fumes.”

Tove Jansson wrote the comet story after the Winter War between the Soviet Union and Finland. With a focus on the theme of strength and ability to live and manage during looming catastrophes it was quite an exceptional children’s book.

Vesuvius erupted in March 1944, right after the Allied armies had taken Naples.


Take a look at the Moomin gallery on tovejansson.com for more interesting illustrations.

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(fonte e testo: https://www.facebook.com/tovejanssonofficial )

Denazificazione, un inganno linguistico

Nel dibattito pubblico sulla guerra in corso il termine denazificazione è ormai di uso comune. L’abbiamo letto nei proclami russi e nelle traduzioni dei discorsi di Putin, di Lavrov e di altri.

Vedo che il termine in Italia suscita emozione, e si accompagna, in molte persone di sinistra, a un riflesso pavloviano. Come il cane di Pavlov aumentava la salivazione alla sola esposizione di una luce rossa, evocatrice di una polpetta di carne, così il termine denazificazione fa aumentare il battito cardiaco di tanta gente di sinistra, portandoli inconsciamente a pensare che chi lo usa potrebbe avere ragione, che chi lo usa è a conoscenza di qualcosa che noi non sappiamo. In queste settimane di comprensibile sconcerto, la conclusione, per costoro, è a portata di mano: tutti gli Ucraini sono nazisti.

Anche io mi ritengo di sinistra. Ho avuto la fortuna, però, di avere avuto due genitori che furono fascisti in gioventù, e che successivamente compresero quanto la loro scelta ideologica fosse frutto di un condizionamento capillare subito dalla nascita. Mio padre, nato nel 1924, cioé due anni dopo la marcia su Roma, e per giunta lo stesso giorno, e mia madre, nata nel 1927.

Scuola materna, scuole Elementari, Medie, Liceo, un’intera vita scolastica sotto la propaganda fascista. Benito Mussolini sulla copertina del sussidiario. Usciti dal mondo della scuola, erano due prodotti perfetti: Giovane Italiana in divisa lei, volontario in guerra con la Repubblica di Salò lui. Vivevano a Milano. Non avendo nelle rispettive famiglie qualcuno che gli proponesse una prospettiva differente, erano il frutto vivente di un processo manipolatorio molto ben congegnato.

Anna e Giorgio

A mia madre e a sua sorella avevano insegnato a guidare i tram quando i tramvieri milanesi proclamavano uno sciopero. Mio padre partì in guerra a vent’anni, e sopravvisse, anche se i fantasmi di quello che vide lo tormentarono tutta la vita, e di quel poco che mi raccontò preferisco non scriverne. Mia madre, il 25 aprile del 1945, era a Milano. Mi raccontò che la città era stracolma di gente festante, e tutti portavano qualcosa di rosso al collo, o nei capelli. Riconobbe tante persone che conosceva. La sua indignazione, alla vista di un popolo in festa, che fino a qualche giorno prima aveva visto applaudire alle adunate fasciste, la portò a mettere in atto una protesta individuale, che sicuramente nessuno capì, per sua fortuna. Comprò un gran mazzo di ravanelli rossi, e girò per le strade di Milano con aria beffarda. Mia madre era fatta così.

Ma cosa mi hanno trasmesso? Mi hanno insegnato a non accontentarmi, a pensare con la mia testa, a conservare uno spirito critico. Forse non ci riesco sempre, ma ci provo.

Molti anni dopo mio padre prese la tessera del PCI, appena andato in pensione, dopo trentacinque anni in ATAC, e poi si impegnò con il Movimento Federativo Democratico di Agnese e Giovanni Moro. Erano scomparsi ormai i suoi parenti più grandi, e forse si sentiva più libero. Ad esempio sua zia Violante Tosi, amica intima di Giorgio Almirante. Me la ricordo, quando da piccolo mi sgridava, quando mi prendeva in giro perché piangevo, magari perché mi ero sbucciato un ginocchio. Trasudava fascismo da ogni poro.

Penso che mia madre, invece, non riuscì mai a scrollarsi del tutto un’ombra di scettiscismo, disorientamento, disillusione. Ma questo non le impedì di impegnarsi nel sociale, per esempio di diventare Presidente del Consiglio di Istituto del mio liceo, con una lista di sinistra che si chiamava Genitori democratici, e tanto tanto altro.

Non sono rimasti i fascisti dei vent’anni, sono cambiati dentro.

Ma veniamo all’oggi. Quando osservo, per quello che posso, la Russia di Putin, il processo manipolatorio è lo stesso, è lì, sotto i miei occhi. Lo riconosco, e vedo generazioni di russi che, come lo furono i miei genitori, ne sono vittime.

Video realizzato per istruire i bambini russi sulla cosidetta “Operazione speciale” in Ucraina

Un altro Paese che osservo è la Finlandia, che frequento, meno di quanto vorrei, da ventidue anni, grazie alla mia compagna. Un Paese che condivide milletrecento chilometri di confine con la Russia. La paura, il sospetto, a volte l’odio verso i Russi, lo percepisci con facilità. Nei discorsi che vengono fatti cadere, in quell’ombra scura che cala sugli occhi dei finlandesi quando parlano dei loro vicini a est.

La memoria del conflitto con i russi è parte integrante della vita di tante famiglie finlandesi. Quando guardano le immagini delle donne ucraine che scappano, con i figli più piccoli in braccio e i più grandi accanto, rivedono un passato ancora troppo vicino. La nonna di mio figlio, insieme a centinaia di migliaia di connazionali, dovette fuggire a piedi, con la mamma e il fratellino più piccolo, da Viipuri, una delle città più grandi del Paese, occupata dai Russi, ribattezzata Выборг (Vyborg), e ripopolata con masse di russi spostate lì da territori ben più a est. E’ un argomento del quale ancora oggi non parla.

Il dopoguerra Finlandese è un periodo affascinante. Ho cercato di approfondire il tema, di cui si riparla tanto oggi nel Paese, della cosidetta Finlandizzazione, termine che viene suggerito spesso agli ucraini, come possibile via d’uscita, o come triste destino. Ne ho parlato con la giornalista Liisa Liimatainen e ho aggiunto una piccola goccia al discorso pubblico, con questo articolo che ho pubblicato in febbraio, dieci giorni prima dell’invasione dell’Ucraina.

Oltre a Liisa Liimatainen, di finlandizzazione ha scritto anche la scrittrice Sofi Oksanen, Finlandese di origine Estone, in una intervista rilasciata prima dell’inizio del conflitto al giornale Ilta Sanomat (Notizie della sera). Più recentemente Sofi Oksanen è nuovamente intervenuta, tracciando un parallelo tra la Russia di Putin e quella di Stalin, in un’intervista all’Helsingin Sanomat, il principale quotidiano finlandese. Nicola Rainò l’ha tradotta e ne potete trovare il testo completo su La Rondine, il magazine online degli Italiani in Finlandia, da lui fondato. Consiglio di leggerla interamente, ma ne vorrei sottolineare questa parte, quando Sofi Oksanen scrive:

Sofi Oksanen

“Nei media russi la vicenda dell’Ucraina acquista, agli occhi del pubblico, un senso ben preciso. Per i telegiornali le truppe stanno liberando il paese dal giogo nazista e salvando gli abitanti del Donbass dal genocidio perpetrato dagli ucraini. (…) certe favole a me non risultano affatto ignote, perché la generazione di mia madre e dei miei nonni, vissuta in Unione Sovietica, si è trovata costantemente a farci i conti. Per la mia famiglia conviverci è stato un enorme problema: i miei parenti sono ed erano estoni. Quando, dopo l’occupazione sovietica, sono state trasferite nel paese masse di gente provenienti da diverse zone della Russia, i nuovi arrivati usavano apostrofare come fascista chiunque fosse del posto – la parola era semplicemente sinonimo di “estone”. Nel mondo sovietico gli estoni venivano stigmatizzati come banditi e nazionalisti, esattamente come gli ucraini oggi secondo i media russi. Se le autorità, la scuola, i canali di informazione e la giustizia ripetono le stesse bugie di generazione in generazione, esse diventano una verità collettivamente accettata.”

E ancora:

“Mi sono trovata davanti questa stessa strategia nel 2007 allorquando l’Estonia è diventata l’obiettivo di un’operazione di così detta guerra ibrida”.

(Sofi Oksanen si riferisce alla crisi del 2007, originata dalla decisione del governo Estone di spostare nel cimitero militare il Bronzovyj Soldat, un monumento funebre eretto al centro della capitale Tallin dai Sovietici, il 22 settembre 1947, per celebrare l’occupazione dell’Estonia (22 settembre 1944). La decisione provocò alcuni scontri, la Bronze night, e un formidabile cyber attacco da parte della Russia).

“(…) Per coloro che, come me, hanno trattato la vicenda storica dell’occupazione dell’Estonia, trovare nella rete i propri nomi accompagnati dall’epiteto di nazista o fascista era la norma e, nelle frequenti manifestazioni pubbliche, i seguaci di Putin tenevano in mano cartelli con le fotografie delle nostre facce corredate con svastiche e simboli delle SS. (…) nelle immagini utilizzate, hanno fatto continuo ricorso a elementi caratterizzanti dell’olocausto, filo spinato e baracche. Il risultato di tale campagna è stata la diffusione globale di una serie di falsità su presunte forme di apartheid in Estonia. In tutti i loro forum di discussione veniva ripetuto il messaggio secondo cui, in Estonia, venivano costruiti campi di concentramento per i russofoni.

In Occidente le sistematiche distorsioni della Russia possono far ridere qualcuno ma i miei parenti non hanno goduto di questo privilegio: in Unione Sovietica contestare le bugie di stato era un crimine, esattamente come oggi nella Russia di Putin. (…) L’unica forma di patriottismo consentita era l’amore verso l’Unione Sovietica. Nella propaganda di Putin il senso nazionale degli ucraini verso lo stato, la lingua e l’indipendenza del paese costituisce una malattia dalla quale si può guarire solo grazie al messia Putin, diventando così un sano membro della grande famiglia slava.”

E infine:

“Per la Russia di Putin definire gli ucraini nazionalisti è un argomento della massima importanza perché, per le orecchie dei russi, la parola ha lo stesso suono negativo del neonazismo presso i paesi nordici. Con il lessico della calunnia si spoglia il popolo-oggetto della propria umanità: eliminarlo diventa pertanto più facile, le case rase al suolo o l’occupazione di un paese non sono più una questione morale bensì il risultato di un obiettivo che merita di essere perseguito. Il seme della persecuzione germoglia nella subalternità e disumanizzazione di un determinato gruppo sociale.”

Sembra di leggere Primo Levi.

In conclusione, se possiamo provare a tracciarne una, penso che noi italiani dobbiamo assimilare un concetto chiaro: la Russia di Putin non rappresenta tutti i Russi ed è un regime totalitario, una dittatura. Questa dittatura utilizza il termine nazisti per definire chiunque si opponga al suo dominio, senza più alcun riferimento storico a quel termine. Questo dominio si esplica, internamente, attraverso una pervasiva manipolazione culturale dei cittadini Russi, fin dai primi anni di vita, e all’esterno con una strategia di russificazione, attuata anche con massicci trasferimenti forzati di popolazioni russofone nei territori occupati, anche da migliaia di chilometri di distanza. 

Non dobbiamo perciò cadere nel tranello linguistico di Putin. Questo sta a noi e alla nostra intelligenza. 

L’intervista completa qui: “Putin non è pazzo”