
Qualche giorno fa ho finito di leggere Kaputt, di Curzio Malaparte.
Il romanzo, scritto tutto in prima persona, è qualcosa di ibrido, a metà tra il reportage di guerra e la pura invenzione. E’ di fatto un lungo dialogo tra l’autore e una moltitudine di persone scosse, logore, disfatte da anni di guerra.
Il libro viene pubblicato nel 1944. Avevo iniziato a leggerlo perché cercavo un testo sulla guerra, e da quanto sapevo il libro era una lunga testimonianza, un viaggio compiuto da Malaparte in Serbia, Bosnia, Croazia, Germania, Polonia, Romania, Svezia, Finlandia, Ucraina, Russia, tra il 1941 e il 1943.
Lo cercavo perché penso che leggere articoli, guardare i telegiornali e i dibattiti in tv, ascoltare la radio sono cose utili a conoscere, ma la letteratura ti permette anche, o più facilmente, di riflettere. E poi, in fondo, tra una comunicazione possibilmente manipolata e qualcosa di fittizio come un romanzo, il secondo è più sincero, in quanto a manipolazione.
Ci ho messo tanto a finire Kaputt. In alcuni momenti ho dovuto prendere delle pause. Malaparte non ti risparmia niente. Ti porta per mano sottoterra, e illumina con una candela, non di più, l’orrore. Te lo racconta, con crudezza ma con moderazione; lo sa che il lettore poi completa il puzzle, unisce i punti, annerisce le parti indicate e riconosce la sagoma da indovinare.
Ho trascritto un piccolo brano, innocuo. L’ho fatto per un amico che ha sposato una donna di L’viv, Leopoli.

(…) Axel Munthe alzò il viso, un’ombra improvvisa era scesa sulla sua fronte. Mi disse che non poteva dormire, che la guerra gli aveva ammazzato il sonno: trascorreva le notti in veglia angosciosa, ascoltando il grido del vento fra gli alberi, la voce lontana del mare.
Spero – mi disse, – che non siate venuto a parlami della guerra.
– Non vi parlerò della guerra – risposi.
– Grazie, – disse Munthe. E a un tratto mi domandò se era vero che i tedeschi fossero così terribilmente crudeli.
– La loro crudeltà è fatta di paura – risposi, – son malati di paura. Sono un popolo malato, un krankes Volk.
– Sì, un krankes Volk, – disse Munthe battendo la punta del bastone sul pavimento: e dopo un lungo silenzio mi domandò se fosse vero che i tedeschi erano così assetati di sangue e di distruzione.
– Hanno paura – risposi, – hanno paura di tutto e di tutti, ammazzano e distruggono per paura. Non già che temano la morte: nessun tedesco, uomo, donna, vecchio, bambino, teme la morte. E nemmeno hanno paura di soffrire. In un certo senso si può dire che amano il dolore. Ma hanno paura di tutto ciò che è vivo, di tutto ciò che è vivo al di fuori di loro, e anche di tutto ciò che è diverso da loro. Il male di cui soffrono è misterioso. Hanno paura sopra tutto degli esseri deboli, degli inermi, dei malati, delle donne, dei bambini. Hanno paura dei vecchi. La loro paura ha sempre suscitato in me una profonda pietà. Se l’Europa avesse pietà di loro, forse i tedeschi guarirebbero del loro orribile male.
– Dunque sono feroci, dunque è vero che massacrano la gente senza alcuna pietà? – m’interruppe Munthe picchiando con impazienza il bastone sul pavimento.
– Sì, è vero, – risposi – ammazzano gli inermi, impiccano gli ebrei agli alberi nelle piazze dei villaggi, li bruciano vivi dentro le loro case, come topi, fucilano i contadini e gli operai nei cortili del kolkhoz e delle officine. Li ho visti ridere, mangiare, dormire, all’ombra dei cadaveri dondolanti dai rami degli alberi.
– E’ un krankes Volk, – disse Munthe togliendosi gli occhiali neri per pulirne con cura i cristalli col fazzoletto. Aveva abbassato le palpebre. Non potevo vedere i suoi occhi. Poi mi domandò se fosse vero che i tedeschi ammazzavano gli uccelli.
– No, non è vero, – risposi. – Non hanno il tempo di occuparsi degli uccelli, hanno appena il tempo di occuparsi degli uomini. Massacrano gli ebrei, gli operai, i contadini, incendiano le città e i villaggi con furia selvaggia, ma non ammazzano gli uccelli. Ah, quanti bellissimi uccelli ha la Russia! Più belli, forse, di quelli di Capri.
– Più belli di quelli di Capri? – domandò Axel Munthe con voce irritata.
– Più belli, più felici, – risposi. – Vi sono innumerevoli famiglie di bellissimi uccelli, in Ucraina. Volano a migliaia cinguettando fra le foglie delle acacie, si posano lievi sugli argentei rami delle betulle, sulle spighe di grano, sulle ciglia d’oro dei girasoli, per beccarne i semi nei loro grandi occhi neri.
Cantano senza posa in fondo alla voce del cannone, nel crepitio delle mitragliatrici, dentro l’alto rombo degli aerei sull’immensa pianura ucraina. Si posano sulle spalle dei soldati, sulle sedie, sulle criniere dei cavalli, sugli affusti dei pezzi, sulle canne dei fucili, sulle torrette dei Panzer, sulle scarpe dei morti.
Non hanno paura dei morti. Sono uccelli piccoli, vispi, allegri, alcuni son grigi, altri verdi, altri rossi, altri ancora son gialli. Alcuni hanno rosso o turchino soltanto il petto, altri soltanto il collo, altri soltanto la coda. alcuni son bianchi con la gola azzurra, e ne ho visti alcuni piccolissimi e orgogliosi, tutti bianchi, immacolati.
La mattina all’alba cominciano a cantare dolcemente fra il grano, e i tedeschi levano la testa dal triste sonno ad ascoltare il loro canto felice. Volano a migliaia sui campi di battaglia del Dniester, del Dnieper, del Don, cinguettando liberi e lieti, e non hanno paura della guerra, non hanno paura di Hitler, delle SS, della Gestapo, non si fermano sui rami a contemplare la strage, ma si librano nell’azzurro cantando, seguono dall’alto gli eserciti in marcia nella sterminata pianura. ah, son proprio belli, gli uccelli dell’Ucraina.
Axel Munthe alzò il viso, si tolse gli occhiali neri, mi guardò con quei suoi occhi vivi e maliziosi, e sorrideva: – Meno male che i tedeschi non ammazzano gli uccelli – disse, – sono proprio felice che non ammazzino gli uccelli.

Axel Munthe (1857-1949)

