La Prima volta

(pubblicato oggi su Malgrado le mosche https://www.malgradolemosche.com/index.php/2021/10/18/la-prima-volta/)

Copertina di Sante Cutecchia

Mio padre e mio zio sorvolavano il lago, in direzione del fiume. Li seguivo a breve distanza, ancora incredulo, sfruttando la loro scia.
Quella mattina si erano comportati in modo diverso dal solito. Mentre si preparavano mi avevano guardato più volte parlottando fra loro:
– Allora? Sei pronto? – aveva ammiccato mio zio.
– Dai, stamattina vieni con noi, prepara tutto – aveva aggiunto mio padre, con un leggero sorriso.
– È una prova importante, per cui non ti allontanare e usa la massima cautela, d’accordo?
Avevo annuito ed ero corso a prepararmi e a lavarmi la faccia, dovevo essere ben sveglio. Il cuore batteva più forte del solito, stordito e incredulo anche lui.

Il cielo era di un blu intenso e per la prima volta osservavo il lago dall’alto. Era molto più scuro di quanto avessi mai immaginato, e non faceva una bella impressione. Fui felice di lasciarmelo alle spalle, quando mio padre e mio zio virarono a destra, portandosi sul fiume. Qui il paesaggio era diverso. L’acqua scintillava, un tripudio di piccoli lampi, una moltitudine di fuochi d’artificio.

– Attenzione adesso! Guarda bene, alla foce! È lì che siamo diretti! – urlò mio padre.
Fu proprio un attimo dopo che una serie ritmica di colpi ci accolse, scuotendo l’aria. Sulla riva destra del fiume apparvero una decina di piccole nuvole, poco più che sbuffi di fumo. Intorno a noi altrettanti tuoni, che ci fecero traballare. Cabrando ci portammo fuori tiro, e un attimo dopo avevamo perso di vista mio zio. Le nuvole vere, bianche e inodori, si mischiavano ora a quelle artificiali, gialle e pestilenziali. Mio padre non mi perdeva d’occhio, e nel frattempo cercava il fratello. Pochi minuti dopo lo scorgemmo, ancora più in alto, sopra di noi, al riparo delle nuvole.
– Non ce l’hanno con noi, almeno credo! – urlò.
– Forse, ma non voglio avvicinarmi per capire se hai ragione o torto! Cambiamo rotta, seguitemi! – Replicò mio padre.
Ci portammo ad almeno cinquecento metri di distanza, diretti sull’altra riva e sorvolando la cima degli abeti, in sicurezza.

– Guarda ora, quella macchia scura, nell’ansa del fiume! Mio zio planò ancora, lo seguimmo.
Ora eravamo al sicuro, e sotto di me si stendeva per centinaia di metri uno spettacolo che mi tolse il fiato. Una moltitudine di soldati sciabordava sul pelo dell’acqua, i corpi gonfi e deformi. Alcuni con ancora indosso la divisa, altri ormai nudi, le gambe e le braccia distanti dal corpo, il viso rivolto verso il cielo, o al contrario verso il fondo del corso d’acqua. Erano tutti giovani, per lo più biondi, castani, pochi i rossi. Il fiume li spostava con dolcezza, e il gioco delle correnti li tratteneva in quel punto, come a nasconderli, a proteggerli. Alcuni affioravano e si immergevano seguendo il movimento dell’acqua, oppure ruotavano su sé stessi, come probabilmente avevano fatto tante volte in passato, per gioco. Non avevo mai visto niente del genere, neanche nei miei sogni più belli.

Mi voltai verso mio padre e mio zio, gli regalai il mio sorriso più ampio. Loro erano già a terra, mi restituirono il sorriso, guardandosi con complicità. Poi caracollando si avvicinarono a due ragazzi, che il fiume aveva deposto sulla riva. Le divise erano aperte sul petto ed entrambi mostravano ampi squarci su un fianco, segno che gli sciacalli erano già passati. Mio zio affondò la testa all’interno del ragazzo più vicino, mio padre fece altrettanto col suo. Un paio di minuti dopo mi guardavano, il cranio glabro rosso di sangue, il becco colmo di carne.

Sudore

Christopher Ganz, Seated Man’s Back, 2019

Puzzava. Di aglio, di altro, non so, ma puzzava. Il suo sudore si mischiava al mio e non era una bella sensazione. Puzzavo anch’io. Quando finimmo gli esercizi entrai nello spogliatoio e mi sfilai la maglietta. Era uno straccio bagnato, la gettai su una panca di legno. Lui entrò e sorrise, fece altrettanto, poi si spogliò completamente e si ficcò sotto la doccia. Gli altri, i bianchi, mi squadravano seri, cercando di capire se fossi disgustato come immaginavano o indifferente a quanto avevo vissuto. Accennai, solo per loro, un piccolo cenno di fastidio, arricciando il naso. Scoppiarono a ridere, sollevati, mi sorrisero e annuirono vigorosamente. Avevo salvato la faccia, almeno dal loro punto di vista. Dovevo pur sopravvivere. Mi spogliai anch’io ed entrai in una cabina doccia. Sapevo che ormai il paki era mio, mi sarebbe toccato altre volte, sempre. Il prof di ginnastica aveva trovato la soluzione, almeno per qualche mese: quel grosso studente pakistano aveva un partner, per tutti gli esercizi di contatto. La sua solitudine era finita. Nessuno, fino al mio arrivo, aveva voluto toccarlo, e gli ordini del prof erano caduti nel vuoto. In Canada, in quegli anni, i pakistani erano paragonati alla merda, né più né meno. Barzellette e freddure di ogni tipo ruotavano intorno a un concetto base: i paki erano escrementi, o meglio, composti da escrementi. Le battute più dure le avevo ascoltate durante le ore di scienze e avevano come oggetto il parto di una donna pakistana, non è difficile immaginare come potesse avvenire. Era questo il contesto nel quale il prof mi aveva proposto di fare da partner a quel ragazzo, un grosso e scurissimo orso sorridente, capelli nerissimi e denti bianchissimi. Forse contava sul fatto che fossi un partecipante a un programma di scambio culturale, o forse solo sulla mia estraneità al sentire generale, dato che ero appena arrivato.

Roma, 1991. Mi ricordai di tutto questo dieci anni più tardi, quando mi iscrissi a una palestra di quartiere. Due volte a settimana, dopo cena, raggiungevo in bicicletta la palestra circoscrizionale dell’Ex-Gil, un complesso di marmo costruito durante il fascismo per i ragazzi della Gioventù Italiana del Littorio. Palestre di varie dimensioni e una grande piscina. Nel gruppo eravamo venti, tra ragazzi e ragazze, e qualche adulto. Iniziavamo a scaldarci correndo lungo le pareti della palestra, poi passavamo agli esercizi di ginnastica individuali, infine agli esercizi a coppie. Fu verso la fine della prima lezione che l’istruttrice mi chiamò e mi disse: “se non è un problema, fai coppia con Alex, avete la stessa corporatura e credo lo stesso peso”. Mi voltai a guardare il mio nuovo compagno. Alex era un ragazzone down di circa vent’anni, piuttosto corpulento. L’istruttrice mi guardò seria “mi risolvi un problema”. Feci coppia con Alex per tutto l’autunno. Dovevamo sederci schiena contro schiena, agganciarci con le braccia e sollevarci l’un l’altro. Era fortissimo, e dovevo fare attenzione a trovarmi ben pronto quando toccava a lui. Le prime due volte mi aveva quasi slogato una clavicola. Sorrideva sempre Alex, e sudava tanto, ma non puzzava d’aglio. E poi era biondo, e pieno di lentiggini. A suo modo però, era un po’ pakistano anche lui.