Piccozze volanti

Una delle grandi novità casalinghe degli anni Ottanta, insieme al Commodor 64 e ai primi videogiochi essenziali e quasi metafisici come ping-o-tronic, furono i video musicali.

Il loro arrivo fu dirompente e andò ad arricchire una offerta televisiva che già in pochi anni si era magicamente decuplicata e di fronte alla quale la vecchia televisione di casa era visibilmente in affanno. In bianco e nero e a valvole, dal nome evocativo di Ecovision, faticava a trasmettere qualcosa di nuovissimo e assolutamente accattivante: gruppi musicali che invece di stare su un palco (e già questo era uno spettacolo raro in televisione) “recitavano” i loro pezzi, circondati da attori e attrici, ballerini, effetti speciali semplici come piogge di palloncini e gags ripetitive come quella del vecchietto/a che guarda attonito “i giovani” ballare sfrenatamente e poi improvvisamente si libera dal bastone e si unisce ai balli, ancor più sfrenatamente.

Con i miei amici ci sentivamo giorno dopo giorno sempre più calamitati all’interno delle mura di casa, attratti da una offerta che non si poteva rifiutare. All’ora di Happy days il muretto a riparo del quale avevamo attraversato gli anni di piombo si svuotava, e ci ritrovavamo seduti di fronte a Potsie, Richie, Ralph, Fonzie e sottiletta Cunningham, in religioso silenzio. Uscire a quel punto era difficile, e le sfide a videogiochi ci aiutavano ad ingannare l’attesa di altri due programmi assolutamente basilari e che solo in quegli anni potevano essere concepiti: Mister Fantasy sulla RAI e Dee-Jay Television sulle reti mediaset. Programmi low-cost basati sulla semplice trasmissione di alcuni video, introdotti come opere d’arte da personaggi astuti (ed esperti) come Roberto Massarini e Claudio Cecchetto.

Fu proprio assistendo al programma dell’inventore di Giocagiué che un pomeriggio fui folgorato da un video completamente diverso dagli altri. Nessuna ballerina anni ’80 con la mega-permanente, nessun finto vecchietto scatenato, nessun elemento coreografico tipico di quel periodo, ma solo sei uomini vestiti con lunghe camicie da notte, che saltavano al rallentatore sui loro letti e poi volavano nel cielo e poi nello spazio, cantando in coro, senza strumenti, a cappella, solo il suono delle loro voci.

Uno di loro era calvo e con gli occhi truccati, uno aveva dei lunghi basettoni, tutti con un look decisamente British e uno stile denso di ironia. Rimasi folgorato, qualcosa in quel video echeggiava dentro di me.

Mi bloccai di fronte allo schermo cercando di captare il loro nome e alla fine del pezzo riuscii a registrarlo: Flying Pickets, le piccozze volanti.

Un colpo di fulmine, un amore che dura ancora.

David Brett, Ken Gregson, Brian Hibbard, Rick Lloyd, Red Stripe, Gareth Williams.

I ragazzi si sono allontanati nel tempo e dopo il 1990 un nuovo gruppo si è impadronito del loro nome. Il fondatore, Brian Hibbard, è morto nel 2012. Quando l’ho saputo ho fatto quello che potevo, fondare un gruppo aperto su facebook, “The Original Flying Pickets Appreciation Group”. Per alcune settimane sono stato l’unico presente. Poi, col semplice passaparola, decine di Inglesi e anglosassoni, da tutto il mondo, si sono avvicinati. Oggi siamo 286. E’ bello vederli condividere ricordi, fotografie, notizie, video, ma anche aggiornamenti sulle attività attuali dei membri della band, dimostrare il loro amore per degli artisti che hanno lasciato il segno in molti, nel loro breve passaggio.

The Original Flying Pickets Appreciation group

The Flying Pickets on Wikipedia

Universal soldier, a Roma.

Ciclicamente sento il bisogno di risentire Donovan, mi piace moltissimo. E ascoltarlo mi fa sempre tornare in mente un concerto a Roma, proprio alla fine degli anni ’70, uno dei ricordi più dissacranti di quel periodo in cui di cantanti stranieri in Italia ne arrivavano davvero pochi.

L’eccitazione del pubblico era altissima e appena Donovan salì sul palco partì un grande applauso. La prima canzone non la conosceva nessuno, ma fu applaudita lo stesso in modo fragoroso. Donovan si guardò intorno con fare sospetto. Lo osservai, poteva avere sui venticinque anni. Lì per lì non ci feci caso, e come me penso tutti i presenti. Qualcosa però nell’aria autorizzava il dubbio.

Donovan attaccò un secondo pezzo, sempre in un buon inglese. Anche qui, il pubblico si spellò le mani. Donovan quindi attaccò col terzo, poi si fermò, appoggiò la chitarra a terra, osservò il pubblico adorante ed esclamò: “Ahò regà, cioé, io ‘nsò Donovan, eh”.

Trenta secondi di assoluto silenzio.

Poi una risata immensa, totale, avvolse il teatro, qualche urletto e poi un enorme applauso, più forte dei precedenti. Il cantante spalla (che darei oggi per sapere chi era) sorrise e ci regalò un terzo pezzo. Poi si alzò, fece un inchino e lasciò il palco.

Le luci si accesero, poi si riabbassarono ed entrò Donovan, con i suoi trentatré anni e la sua chitarra.

Donovan, i Beatles e Mia Farrow in India, 1968

Posti riservati

“I can see your house from here” – foto di Paolo Laici, Roma, 2018

60 Express, Via Nomentana, direzione Piazza Venezia. 15 marzo, ore 8:40, classica giornata di tramontana, sole, aria fredda e pulita.

È un mercoledì, ancora troppo presto per cominciare a sentire l’odore del fine settimana. L’ autobus è quasi pieno, e tutti i posti a sedere sono occupati. Un uomo in eskimo, sui quaranta, è in piedi di fronte ai posti riservati ai disabili, occupati anch’essi. Altezza media, capelli lunghi e barba leggera, molto magro, pantaloni di velluto marroni di una taglia più larghi e scarpe da ginnastica. Si regge un po’ incerto a uno dei mancorrenti verticali. Ha l’aria arrabbiata e borbotta qualcosa tra sé e sé. Un coetaneo, seduto proprio sotto di lui, nota l’atteggiamento, lo guarda e gli chiede: – Mi scusi, c’è qualche problema? L’uomo scuote la testa, come a voler scacciare parte della tensione, e risponde, con aria seccata e voce profonda, quasi baritonale: – Beh, non è che uno, se è disabile, ce lo deve aver scritto in faccia.

Il signore seduto lo squadra perplesso. Il suo interlocutore all’apparenza non sembra avere alcun problema. Si schiarisce la voce e gli si rivolge con tono pacato, come qualcuno che stia per accostarsi a un mistero, qualcosa di imprevedibile. – Se ha un problema, cioè, insomma, se vuole il mio posto, mi alzo. Porta un gesso?
– Vede, il fatto è che i posti riservati ai disabili dovrebbero essere sempre lasciati liberi. Non è che se uno ne ha diritto deve trovarsi obbligato a chiedere, perché a quel punto dovrà pure spiegare il perché, a meno che non sia evidente.
L’uomo seduto comincia a raccogliere le sue cose, una borsa ai suoi piedi, un paio di guanti sulle ginocchia, il libro, dopo aver riposto con cura il segnalibro. – Guardi, non deve spiegarmi proprio nulla. Si sieda.

“Il nostro Maggio”, foto di Paolo Laici, Roma 2019

L’uomo in eskimo appare stupito. Si muove con lentezza e, nel farlo, risulta evidente che la gamba sinistra è bloccata. Si passa le dita della mano destra tra i capelli, guarda un attimo fuori dal finestrino, come assaporando la nuova prospettiva che ora gli si para di fronte. Il 60 è quasi giunto all’altezza di Villa Paganini. Dopo essersi seduto, accenna un mezzo sorriso al suo benefattore, che ora ha preso il suo posto in piedi. – È di legno… insomma, è finta.
Poi fa una breve pausa, quasi a raccogliere le idee: – Da fuori non si vede, non si nota sotto i pantaloni. E sa che è? Non ce la faccio ogni volta a tirare fuori il distintivo, che poi tanto non lo vede nessuno – aggiunge, indicando un piccolo bottone metallico subito sotto il bavero. L’altro annuisce e, pur senza parlare, sembra porgli una domanda, la domanda delle domande. L’uomo in eskimo non si sottrae. Guardando ora fuori dal finestrino, ora l’uomo in piedi, inizia a parlare: – È successo in campagna. Sono laureato in Agraria. Allora cercavo di mettere in pratica quello che avevo studiato sui libri, ci provavo almeno. Quel giorno ero solo, e questo è sempre un errore, sui campi, o almeno può esserlo. Stavo dissodando un terreno con una motozappa, l’avevo usata mille volte, ma quella non andava giù, niente, la terra era dura come pietra.

Dopo una piccola pausa, si passa una mano tra i capelli. L’uomo ascolta attento.
– E insomma, c’è quella leva, quella dove si poggia il piede per spingere la motozappa nel terreno… be’, l’ho mancata, e le lame mi hanno risucchiato la gamba. Sono svenuto. Quando mi sono risvegliato, non avevo il cellulare, l’avevo lasciato al capanno, nessuno nei paraggi, ero in una valletta isolata. Era primo pomeriggio e sono rimasto lì, da solo, a dissanguarmi per qualche ora. Poi, Dio ha voluto che c’era mio fratello che mi cercava, e io non rispondevo, allora si è insospettito ed è venuto da Roma. Mi ha trovato in mezzo al campo, come l’aratro di Pascoli, ci ha presente? – abbozza un sorriso. L’uomo in piedi ascolta, lo sguardo fisso, la bocca tirata. – Quando mi ha visto, ha chiamato subito il 118, è arrivato l’elicottero, mi hanno portato all’ospedale di Viterbo. E niente, l’ho persa, non c’è stato niente da fare.
– Ma come è sopravvissuto tutte quelle ore? È riuscito a bloccare l’emorragia? Si è fasciato la gamba? L’uomo in eskimo dondola la testa, poi accenna un sorriso ironico, guardandosi le gambe: – Macché, non riuscivo a muovermi. È stato il colesterolo. In ospedale mi hanno detto che devo la vita a un grumo di colesterolo, aveva otturato una vena e ridotto il deflusso del sangue. Comunque, m’hanno ripreso per i capelli.

I due rimangono in silenzio. Entrambi sembrano assorbire quanto raccontato e ascoltato. Il 60 è ormai oltre Porta Pia. Ha percorso via XX Settembre e imboccato via Nazionale, lasciandosi sulla sinistra la fontana delle Naiadi. L’uomo in piedi sospira, poi con la mano gli stringe la spalla, prima di prenotare la fermata. – Mi dispiace, io… non ho parole. Grazie di aver condiviso tutto questo con me. Devo scendere ora, buona giornata.

L’uomo in eskimo soffia via una ciocca di capelli sospesa sulle labbra, poi sfodera un bellissimo sorriso. – Mi chiamo Alberto. Poi ho trovato moglie, sa? Sono andato in Polonia. Sono partito da solo e siamo tornati in due. Abbiamo due bambini meravigliosi, un maschio e una femmina. Parlano correttamente due lingue e vanno bene a scuola. Buona giornata a lei. Si aprono le porte, l’uomo scende, l’autobus riparte.

“Parabolic Beeches”, foto di Paolo Laici, Soriano al Cimino, 2020

Da “Non date i soldi a Mike Tyson” – Marco Tosi, 2019

Per ricordare Bianca, quando ci parlava delle sue letture e ascoltava le nostre

Un ricordo di mia zia Bianca, grande e attenta lettrice

GRUPPO DI LETTURA

Alcune settimane fa se ne è andata dal mondo, dopo una lunga e bella vita, una persona che mi era molto cara ed è stata molto importante, per un numero infinito di motivi.
Fra i suoi grandi meriti, Bianca aveva anche quello di saper leggere nel migliore dei modi possibili.
Vale a dire, leggere mantenendosi in equilibrio sul filo che attraversa la lettura privata e individuale, che tutti noi pratichiamo e amiamo; ma anche, la lettura pubblica e condivisa.
Fra le molte cose belle della sua vita, Bianca praticava in modo appassionato e creativo la condivisione della lettura. Sapeva in modo istintivo cosa tenere per sé di ciò che le suscitava una pagina, un rigo, un romanzo intero, e cosa invece donare, restituire, condividere. Anche nel caso della lettura pensava che avesse molta più forza, ricchezza e senso dar vita a parole nuove; a un dialogo, una…

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La strada

Edward Hopper “Solitude”, 1944

La strada costeggiava il fiume, seguendone le curve con dolcezza. Roberto Ricciardi guidava senza fretta, in direzione contraria al flusso dell’acqua, che scorreva alla sua destra. Una certa quantità di sabbia proveniente dalla riva più vicina si distribuiva uniforme sull’asfalto, mischiandosi alle foglie cadute dagli alberi sul lato opposto.

Anche quella mattina si era svegliato presto. Il sole era ancora basso e l’acqua luccicava, colpita in modo obliquo dai raggi del sole.

Un piccolo gruppo di mucche stazionava tranquillo tra il fiume e la strada, chiacchierando, così sembrò all’uomo, con altre compagne sulla riva opposta. I due gruppi muggivano a turno, e Roberto pensò che non poteva essere casuale. Una decina di gabbiani osservava la scena dall’alto, volando in cerchio e commentando a viva voce.

Rallentò leggermente, spense la radio e aprì il finestrino alla sua destra. Gli stridii degli uccelli si diffusero lungo l’abitacolo, ma solo per alcuni metri. Tutto sommato, pensò, era meglio salutare il giorno ascoltando quei suoni, avrebbe avuto molte ore per riempirsi di voci umane. Non che la cosa gli dispiacesse, si disse, faceva parte della vita anche questo. Si rendeva conto però che da quando aveva scelto quella strada le cose erano cambiate, era cambiato lui. Un percorso ben più lungo per raggiungere la città, quasi un’ora in più rispetto alla superstrada, il doversi svegliare all’alba. Ma non si pentiva di quella scelta, e lo spettacolo che gli si parava di fronte ogni mattina riusciva sempre a sorprenderlo e a rassicurarlo al tempo stesso.

Giunto al ponte rallentò. Anche quella era una scelta, quello nuovo era a due corsie, avrebbe impiegato molto meno tempo ad attraversare il fiume. Il vecchio ponte di pietra invece era stretto, nato per un traffico rarefatto, di carri trainati da muli, contadini a piedi, greggi condotte da cani. Il bello era che da lì i camion non potevano passare, e poi gli piaceva fare una sosta da Gianni, il contadino, a comprare qualcosa da mangiare. La sua bancarella era sul lato sinistro della strada, subito oltre il fiume. Parcheggiò e spense il motore. Gianni era a una decina di metri, intento a servire una coppia di donne. Una di queste ci parlava, l’altra toccava delle mele, una a una. Roberto si chiese, per l’ennesima volta, come facesse a stabilire il peso di frutta e verdura con quella bilancia così antiquata, e così in fretta. Fece per scendere dall’auto, poi cambiò idea e si fermò a osservarlo, attraverso il parabrezza, cosa, realizzò, che non aveva fatto mai.

L’uomo era basso e tarchiato, l’addome gonfio, i capelli bianchi e la pelle cotta dal sole, come la corteccia di una quercia da sughero. Indossava una canottiera lacera, che una volta era stata bianca, e dei pantaloni marroni troppo larghi, con le tasche rigonfie di qualcosa che non riuscì a identificare. Le mani erano grandi e callose e sul braccio sinistro spiccava un piccolo tatuaggio bluastro. Da quella posizione protetta ne osservò il viso con un’attenzione che non aveva mai posto prima: il naso largo e schiacciato, la barba lunga e un piccolo sigaro spento in bilico sul lato destro della bocca, un vezzo, si disse, e una cicatrice sulla guancia, anche questa a destra.

Gianni stava incartando delle uova, a pacchetti da sei, nella carta di giornale. Sistemò quattro di questi in un paniere di plastica verde, di quelli che vogliono sembrare di vimini. Riposto l’ultimo pacchetto alzò lo sguardo e scorse l’uomo al di là del vetro, strizzando gli occhi e accennando un sorriso. 

Roberto allora uscì dall’auto, accennò un saluto e si sgranchì gambe e braccia. Chiuse la portiera di guida, aprì il cofano posteriore e cercò una borsa di tela, senza trovarla. Aggrottò le sopracciglia. Eppure deve esserci – pensò – sono certo di averla rimessa al suo posto, come sempre, come ogni giorno. Si appoggiò all’auto e osservò l’acqua, cercando di concentrarsi e ricordare le sue mosse la sera prima.

Una dozzina di anatre risaliva la corrente, senza sforzo apparente.

Senza capire come, il solo guardarle lo aiutò a visualizzare il momento in cui aveva poggiato la borsa su una sedia in cucina, l’aveva svuotata del suo contenuto e non l’aveva riportata in auto. Una sbavatura. Un piccolo strappo nell’ordito della sua giornata.

L’ultima anatra era scomparsa, Roberto non la vedeva più. Starà passando sotto il ponte, pensò, ma non volle controllare, sentì che aveva paura di sbagliare. Anche se non la vedo so dov’è, pensò.

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Marco Tosi, dicembre 2019

Something’s Got to Give

10 Aprile 1962. Anna, chissà come passò quella giornata. Sicuramente affaccendata dietro ai miei fratelli più grandi, uno di quattro, l’altro di due anni. E chissà come la passò Giorgio, con le sue otto-dieci ore e le sue quaranta sigarette in ATAC, tra cantieri e ufficio.

Quel giorno ero ancora un’idea, di cui forse mamma e papà non erano ancora consapevoli… con mio fratello gemello ci saremmo affacciati al mondo circa otto mesi dopo.

Quel giorno una Marylin meravigliosa faceva un provino importante, per “Something’s Got to Give” di George Cukor.

Era un mondo inquieto nel ’62, non meno di oggi: Papa Giovanni XXIII scomunica Fidel Castro e avvia il Concilio Vaticano secondo, primo Papa ad uscire dal Vaticano dal 1870, Antonio Segni diventa Presidente della Repubblica, L’Algeria, la Giamaica, Trinitad e Tobago e il Burundi conquistano l’indipendenza, Adolf Eichmann viene giustiziato a Tel Aviv, Nelson Mandela viene arrestato, i Beatles pubblicano il loro primo 45 giri, scoppia la guerra tra India e Cina, l’Armata Rossa massacra ottantasette persone durante una manifestazione di protesta, John Fitzgerald Kennedy annuncia il progetto di sbarco sulla Luna, scoppia la crisi dei missili a Cuba, protagonisti Castro, Kennedy e Krushchev.

Ma soprattutto, in un giorno di Agosto del 1962, Marylin esce di scena, in punta di piedi. Il film di George Cukor non vedrà mai la luce.

Incontro con Tim

Tim Roth – http://www.berlinale.de

L’ufficio è proprio alle spalle di Piazza Navona, o davanti, in effetti, dipende da dove provieni. Comunque sia, ho la fortuna di lavorare tra Campo de Fiori e la piazza più bella di Roma. Che poi anche questa è un’opinione. Questione di gusti. Per me è lei, è la più bella, non ho dubbi. E i dintorni, che non vogliono essere da meno, mantengono il livello, ma alla romana, senza strafare, cercando quel sottile equilibrio tra il giusto sforzo e il massimo risultato possibile. A un passo c’è la statua del Pasquino, e lì intorno una serie di locali popolari per generazioni di romani, dal Cul de Sac, al Battello Ubriaco (non c’è più, lo so), alla Montecarlo. Più avanti, all’inizio di via del Governo Vecchio, c’è una libreria, una tappa obbligata, coi suoi manifesti del cinema da sfogliare, proprio sul marciapiede, a portata di mano. Accanto alla libreria c’è un bar, ed è lì che succede. Ci vado quasi tutti i giorni, un rito che chiude la pausa pranzo, passata su una panchina di marmo della piazza, accanto alla prima fontana, di fronte all’Ambasciata del Brasile, o in piedi fuori dal panificio di Campo de Fiori, vicino al fioraio. Al banco c’è sempre lui, giovane, capelli e barbetta rossi, camicia bianca, papillon nero e un sorriso sincero. Mi ispira una gran simpatia, e mi fa ridere, perché mi chiama professore – professò che je do, un caffettino? Mi ricorda sempre Paolo Poli, che diceva che quando un barista ti chiama Professore è perché non sa come inquadrarti: hai una certa dignità nei modi, ma sembri un poveraccio, e quindi va bene professore, non sbagli. Per questo rido sempre, e perché è simpatico, lo vedo che lo fa senza malizia. Io lo chiamo il Roscio, ma lui non lo sa.

Entro, non c’è nessuno. Raggiungo il bancone e il Roscio mi saluta nel solito modo, buongiorno professò, ma a voce alta, è eccitato, c’è qualcosa che lo agita e non capisco cosa. Si gira verso la gaggia e mentre il caffè scende nella tazzina si volta a guardarmi, e ammicca. Lo guardo, mi guarda. Aggrotto le sopracciglia, come a dirgli che c’è? Mi sento un vecchio professore, in effetti. Il Roscio non reagisce e non cambia espressione, poggia la tazzina fumante sul piattino, avvicina la zuccheriera e continua a guardarmi e ammicca, e guarda oltre le mie spalle, in fondo al locale, ma un attimo. Allora mi volto e nell’angolo più lontano, seduto a un tavolino, c’è un tipo che sorseggia un cappuccino. Non l’avevo visto, il tavolino è proprio nell’angolo morto alla destra della porta d’ingresso. Lo guardo, mi guarda. “Cazzo, è coso…”, penso. Nulla di più lo ammetto, so solo che è un attore, ma non ricordo il nome. Poi un’immagine, il pianista sull’oceano, ci sono, è lui, ma il nome no, non viene. Gli sorrido, mi sorride. Mi rigiro verso il bancone e non mi volto più, occhi altezza piattino, sorseggio il caffè. Sento lo sguardo del Roscio che mi trafigge, mi buca la fronte. Cedo, lo sbircio e lui è lì con la faccia che dice HAI VISTO?, annuisco, con l’espressione da vecchio professore che dice su, facciamo finta di niente, si-sta godendo-il-cappuccino-in-santa-pace, non ci facciamo riconoscere. Ma il Roscio frigge, lo sento. Poi un rumore inconfondibile, una sedia che viene spostata, il pianista è da noi. Con uno sguardo che dice “allora grazie, arrivederci”, poggia piattino e tazza sul bancone. Io mi sposto di lato e gli sorrido di nuovo, e in quel momento il Roscio non ce la fa più, e lo so che non conosce l’inglese, gli ho dovuto fare da interprete più di una volta, guarda il pianista, allarga le braccia e YOU… YOU ARE BEATIFUL dice, e il nostro pianista sorride divertito e imbarazzato e io scoppio a ridere, e lui allora guarda il Roscio e gli regala un bellissimo sorriso e poi mi guarda con un leggero sguardo di intesa, poi fa un piccolo inchino di saluto con la testa ed esce dal locale. Restiamo soli. Il Roscio è sfinito. Tiene in mano la tazza del pianista, fa per metterla nel lavandino, poi mi guarda e scuote la testa. Sento di volergli bene.