Danilo Mainardi non l’ha mai saputo ma è stato per me una persona molto importante. Verso i tredici-quattordici anni mi imbattei in un suo libro, “Il comportamento animale. Introduzione all’Etologia”, pubblicato da Zanichelli, in una collana per giovani curata da Giorgio Tecce. Quella lettura mi affascinò e aprì le porte di un mondo, quello dell’etologia, che si popolò ben presto di altri nomi, Niko Tinbergen, Konrad Lorenz e altri, fino a Desmond Morris.
Ho letto molti dei suoi libri e mi è sempre piaciuto il suo approccio umile, la sua capacità di muoversi agevolmente da livelli accademici quasi esclusivi a livelli divulgativi molto più semplici, in grado di far arrivare a tutti il suo amore per gli animali e la natura. E’ stato Presidente della LIPU e inoltre, non è poco in un Paese come il nostro, ha avuto il coraggio intellettuale di schierarsi con associazioni come la UAAR (Unione degli Atei Agnostici Razionalisti), di cui è stato Presidente Onorario.
Dicevo che non l’ha mai saputo perché in verità ho avuto l’occasione di dirglielo, ma non ne ho avuto il coraggio. Tutta colpa di una rana sfocata.
Dal 1982 al 1990 ho lavorato in una impresa di trascrizioni, la GI.BRAS; si trattava di registrare seminari, dibattiti, convegni, tavole rotonde; registrazioni che poi delle colleghe avrebbero riportato da bobina a carta. Dico colleghe perché la divisione del lavoro era rigidissima: i maschi giravano per la città registrando, le femmine si mettevano le cuffie, azionavano le macchine da scrivere con le pedaline e trascrivevano.
I nostri clienti erano principalmente la UIL, la CGIL, l’Unità, Paese Sera, Palazzo Sturzo e L’ Accademia dei Lincei. Questo, l’ho compreso svariati anni più tardi, mi diede l’occasione unica di conoscere, parlare – anche solo per sistemare un microfono a collare – con sindacalisti come Bruno Trentin, Fausto Bertinotti, Giorgio Benvenuto, Sergio Garavini, ma anche con registi come Scola, Lizzani, Rosi, di portare la scoppola a Pajetta, di aiutare Ottaviano del Turco a rianimare un compagno socialista svenuto, di aspettare insieme a un Giorgio Spadolini sbuffante sul marciapiede, l’arrivo di Sandro Pertini in gran ritardo.
Ma questa è un’altra storia, sono altre, piccole storie.
Tornando a Mainardi, lo incontrai all’Accademia dei Lincei. Mi salutò cordialmente e mi consegnò un caricatore di diapositive, chiedendomi di proiettarle durante una sua relazione. Ero emozionatissimo. La platea era composta dai più illustri zoologi e naturalisti d’Italia ed io ero solo un ragazzo. Ci mettemmo d’accordo su un cenno, al quale sarei dovuto passare alla diapositiva successiva. Mi ripromisi di parlarci a convegno concluso.
All’inizio andò tutto bene. Poi, verso metà della relazione, il proiettore andò fuori fuoco.. una banale rana si rese improvvisamente incomprensibile. Mainardi mi guardò; tutti mi guardarono; cominciai a sudare nella mia giacca e cravatta, diventai rosso come la lava dell’Etna e mi paralizzai dall’imbarazzo.
Qualcuno dalla platea esclamò “fuoco”. Tutto si risolse in pochi minuti, quando il famoso etologo Leo Pardi (sì, proprio così) si alzò, mi raggiunse imprecando, mi aggirò come si aggira una statua di sale, e armeggiando sull’obiettivo rimise le cose al suo posto; il pubblico rumoreggiò sollevato. Tornando al suo posto Leo mi diede un colpetto su una spalla e Mainardi mi sorrise comprensivo, esclamando: “in effetti quella rana la ricordavo diversa”.
La sera del 19 febbraio di cinque anni fa moriva Umberto Eco.
Quel giorno mi trovavo a Budapest per lavoro e la mattina presto del giorno successivo, il 20 febbraio, presi un taxi verso l’aeroporto; il tassista accese la radio, e dopo un paio di brani musicali sentii qualcosa come “xxxxxxxxxxx Umberto Eco xxxxxxxxxxxxx Eco, xxxxxxx Umberto Eco, xxxxxxxxx, Umberto Eco xxxxxxx xxxxxx” senza capire assolutamente nulla. Nella mia ingenuità, o forse perché ero assonnato o di buon umore, pensai (realmente) che il tassista fosse un intellettuale e fosse sintonizzato su un programma culturale nel quale si parlava di letteratura, semiotica e simili. All’aeroporto di Fiumicino, purtroppo, su ogni schermo disponibile, la verità.
Non so perché ma mi sentii nuovamente orfano, in un certo senso. A casa mia, Eco era stato per quasi quindici anni un’icona, la bustina di minerva nell’ultima pagina dell’Espresso che mio padre acquistava ogni settimana.
La prima volta che lessi un suo libro fu nel 1992, grazie a un amico e compagno di studi che mi propose di leggere “I pampini bugiardi” (Bonazzi-Eco,1972), prendendo spunto dal quale scrivemmo insieme una tesina per l’università. La prima volta che lo vidi di persona fu molti anni dopo, all’Auditorium di Roma, nel marzo del 2014. Ero andato ad ascoltare una conferenza/presentazione libro di Jared Diamond. Subito dopo c’era un firma libri e io andai a farmi firmare da Diamond il suo ultimo libro, “Il mondo fino a ieri”.
Jared Diamond
La fila era ridottissima, non più di quindici persone. Accanto alla nostra fila ce n’era un’altra che al contrario era chilometrica. La mia scorreva lenta, la fila parallela più veloce. Raggiunto Diamond, vidi che proprio alla scrivania accanto c’era Eco, che potei osservare a lungo. Lo stile era completamente diverso. Diamond aveva chiarito: no foto, no selfie, no video. E così fu. Fu cortesissimo e – in italiano – parlammo a lungo, anche perché ero l’ultimo. Gli chiesi una dedica non per me, ma per mio figlio, e quando sentì il nome chiese “è finlandese ?” (ah, la cultura!). Tralascio i dettagli della conversazione, tranne uno: quando disse “il finlandese e l’ungherese sono lingue parimenti difficilissime, neanche io sono riuscito a impararle” (sic), mi sentii assolto e felice.
Lo stile di Eco era molto diverso. Era praticamente aperto, direi spalancato, a qualsiasi richiesta: foto da solo, foto in due, selfie, col libro, senza libro, video, sorrisi smaglianti, in piedi, seduto, sdraiato… un uomo brillantissimo, modesto, generoso, e sicuramente anche “pratico” e ottimo venditore di se stesso.
Quando morì, meno di due anni dopo, emerse che aveva un tumore al pancreas, diagnosticato due anni prima. Mi tornò in mente quell’incontro all’Auditorium, ripensai al suo comportamento e al fatto che molto probabilmente quel giorno ne era già consapevole.
Nel suo testamento Eco ha chiesto alla moglie Renate Ramge e figli di non autorizzare seminari o conferenze su di lui, fino al 2026. Anche in questa scelta si è rivelato un gran conoscitore dei meccanismi della comunicazione e dei riti della memoria.
– Mio padre è morto che ero ancora molto piccolo. Ne ho un ricordo vaghissimo, solo un’immagine sfocata. Ma poi non lo so…è un ricordo vero? Forse è indotto, solo il ricordo di un ricordo.
Sono a cena con zio Traiano, classe 1926. Che poi in realtà non è mio zio, ma io lo chiamo così, perché alla fine è uno zio vero, più di tanti altri. Ha un gran appetito, e tanta voglia di parlare. Gli chiedo di raccontare com’era Roma negli anni ’40. Non si fa pregare, lo ascolto e gli riempio il piatto, e il bicchiere.
– Con mia madre stavamo a Testaccio, dove c’è il teatro Vittoria, in piazza. Mia madre insegnava francese ed era abruzzese. Era precaria, e insegnava quando e dove la chiamavano. La mattina prendevamo il tram insieme e a un certo punto dovevo scendere e lei rimaneva su. Eravamo d’accordo che non dovevo mai attraversare se passava una macchina e allora mi fermavo sul marciapiede e guardavo bene. Ero attento, e se pure scorgevo un carretto lontano, aspettavo che passasse e solo dopo attraversavo. Poi raggiungevo il portone della scuola (andavo da certe suore) e siccome non arrivavo al campanello aspettavo che passasse qualcuno e gli chiedevo di suonare per me. Quando vedevo uno giusto gli chiedevo che per favore mi suona il campanello? Parecchi non mi rispondevano neanche, poi qualcuno mi dava retta, suonava e allora entravo.
Poi quando c’è stata la guerra io ero marinaio e mi hanno mandato a La Spezia. Ma non ho fatto niente, perché gli inglesi un giorno hanno affondato la mia nave, ma nel porto. Io stavo sulla banchina e il cane nostro, la mascotte diciamo, era rimasto sul ponte e non si buttava in acqua, la nave stava andando giù, e allora dei marinai più grandi hanno preso un barchino e l’hanno preso e portato a riva. Noi siamo andati tutti a fargli le feste ma lui ha cominciato a correre via e non l’abbiamo più visto.
Poi ci hanno spostato a Gaeta e l’8 settembre del ’43 abbiamo saputo dell’armistizio e allora siamo tornati a Roma in due, un pò a piedi e un pò a turno in bicicletta. Quando siamo arrivati, dall’ostiense siamo arrivati proprio a Porta San Paolo e c’erano i soldati italiani che si sparavano con quelli tedeschi. In qualche modo sono riuscito ad arrivare a casa e sono rimasto dentro un bel po’, non uscivo mai.
I tedeschi a un certo punto sono arrivati in piazza, col carro armato e i fanti che gli camminavano accanto coi fucili spianati, ma senza ripararsi, e allora esce sto fantaccino con un fucilino e pum ne ammazza uno e poi di nuovo, prende la mira e pum ne prende un altro. E poi rimaneva là vicino e tutti a gridargli “ora scappa, vattene!” e lui è scappato e non si è più visto.
E poi un uomo che tornava a casa, un operaio credo, si è riparato nel portone del palazzo mio, e aspettava là, poi però a un certo punto si è affacciato per vedere se poteva andare via e ha preso un colpo da dietro, sulla nuca, ed è morto. E’ rimasto lì per parecchio tempo, l’hanno un po’ coperto coi giornali. Però poi il giorno dopo la gente passava, tanti nella confusione andavano ai mercati generali che allora erano lì vicino, a cercare qualcosa da mangiare, e ci passavano sopra, lo scavalcavano. Poi è arrivata la moglie, qualcuno l’ha avvertita, e piangeva, piangeva, e l’hanno portato via.
Sempre lì vicino c’era un carro armato italiano, ma era proprio di lamierino sottile e aveva tutti tagli sui lati, e si vedevano dei soldati nostri morti, ma non si riusciva a tirarli fuori e allora c’hanno buttato la calce sopra, dai buchi.
8 settembre 1943, Granatieri a Porta San Paolo
Poi a mamma gli hanno dato un posto in una scuola a Crotone e l’ha dovuto prendere, e io sono rimasto a Roma per finire gli studi e allora siccome stavo solo è venuta Menicuccia da Avezzano, a stare con me. Non sapeva né leggere né scrivere Menicuccia, e tanti ci avevano provato a insegnarle, ma niente da fare. Però mi sa che i conti li sapeva fare perché faceva la spesa. Mamma prese servizio il 15 ottobre, perché all’epoca la scuola iniziava il 15 ottobre, ma per le vacanze dei morti era già a Roma. Poi è tornata giù e l’ho rivista a Natale, e io stavo con Menicuccia, che tutti pensavano che era mia nonna, e io glielo lasciavo credere. E poi ho finito gli studi e mamma è riuscita dopo qualche anno a farsi trasferire in Abruzzo. Il fatto è che lei viveva con altre colleghe ma quelle avevano il marito e allora dopo qualche anno riuscivano a farsi trasferire. Lei invece rimaneva sempre lì perché era vedova. E a loro che si dovesse ricongiungere con l’unico figlio non gli importava.
All’ATAC sono rimasto trentacinque anni; con Giorgio e gli altri, eravamo un bel gruppo. Ma appena pensionato ho accettato quel posto in Perù. Lì, non so perché, l’Italia gli aveva finanziato una linea di tram, una specie di metro di superficie, ma il governo nostro voleva pure che qualcuno stesse lì a controllare che realizzavano il progetto. I peruviani sapevano fare tutto, erano bravi, noi eravamo lì solo per controllare. Il Perù è bello, sono brave persone. Il Messico mi piace meno.
Io quando stavo lì, mi avevano dato Jolanda per aiutare in casa, che era piccola; io le avevo pure detto quando torno vieni anche tu in Italia, ma lei si doveva sposare ed è rimasta. Poi però non si è più sposata e allora mi ha telefonato ed è venuta a Roma. Qui frequenta solo Peruviani, però non trova un compagno, non si fida tanto. Non si capisce mai bene se questi sono davvero soli oppure magari hanno moglie e figli in Perù e non lo dicono.
Ha parlato tutto di un fiato, mangiando e bevendo. Ora tace, sta guardando ancora qualcosa, dentro di sé. Lo vedo stanco.
– Zio, è tardi, ti accompagno a casa.
– Va bene mi accompagni, ma solo per un pezzo, d’accordo? Facciamo metà per uno.
Non abitiamo distanti, da casa mia a casa sua sono poco più di duecento metri. Camminiamo in silenzio. A metà strada si ferma, e mi indica la via del ritorno.
Le coincidenze mi affascinano, da sempre. Quando le incontro, quando credo di riconoscerle, mi chiedo se siano loro a cercare me o se al contrario sono io che ci rimango invischiato, come un moscerino in una ragnatela. Tutto questo, lo sento, ha un significato, ma non so quale.
Alcuni anni fa l’ufficio dove lavoro si trasferisce, per motivi di spazio, da Corso Vittorio Emanuele, a un passo da Campo de Fiori, a Via Venezia, una piccola traversa di Via Nazionale, a un passo dal Viminale.
La via è molto corta, solo tre palazzi di abitazione. Rimango colpito da questa scelta, perché un fratello di mio nonno abitava proprio qui, con la moglie, Tina Beltrami. Si chiamava Giovanni Narici, fratello di mio nonno Enrico. L’unico membro della famiglia Narici abitante a Roma, oltre a mia madre Anna. Tutto il resto della famiglia è a Napoli, a Milano, Pesaro, Lecce.
Manlio Gelsomini
Ho pochi ricordi di Giovanni, detto Giovannino. Ma ricordo il suo humour. Un pomeriggio mia madre lo accompagna ad effettuare una visita medica, e io vado con loro. Giovannino guarda fuori dal finestrino, in silenzio, mentre la fiat seicento di mia madre percorre via Nomentana. Ad un certo punto mi guarda, ammicca e indica un gran palazzo: – lo sai? Questo è mio – io lo guardo stupito e lui – che hai capito, intendevo il dito!
Ricordo anche lo smarrimento di Tina, la moglie. Mia madre le aveva messo un biglietto proprio attaccato al telefono, con su scritto: “se ti svegli e ti ritrovi da sola, non preoccuparti, chiama questo numero”. E Tina chiamava, anche in piena notte.
– Scusate, ho trovato questo biglietto… chi siete? Sono sola, sapete dove si trovi mio marito? E mia madre a dirle, Tina, sono Anna, la nipote di Giovannino, siediti. Ricordi? Giovannino… non c’è più.
Palazzo Pascucci
Questa è la vista dalla mia finestra. L’ufficio è all’interno del palazzo Pinzari, proprio di fronte al palazzo Pascucci. Sulla parete a sinistra del portone del palazzo Pascucci c’è una targa bianca. La noto quasi subito, ma non gli do molta importanza. I palazzi, i muri di Roma sono pieni di targhe, di lapidi, parlano a chi vuole ascoltarli.
Un giorno, prima di risalire in ufficio, mi fermo a leggerla. Parla del medico Manlio Gelsomini, attivo nella Resistenza dopo l’8 settembre del ‘43, catturato e ucciso alle fosse Ardeatine. In quel momento non sento il bisogno di approfondire. Penso solo che per lui c’è una via grande a Roma, Viale Manlio Gelsomini, e anche Largo Manlio Gelsomini, accanto al Parco della resistenza dell’VIII settembre e mi dico – ah ecco dove abitava.
Poi, in un giorno di pioggia di metà gennaio, viene posta, proprio all’ingresso del palazzo, una pietra di inciampo, in ricordo di Alberto Pascucci, arrestato e deportato in Germania nel 1943, due giorni prima di Natale.
Pascucci è un tipografo, arrestato perché cammina per la città di notte, in violazione del coprifuoco; viene classificato come detenuto politico; morirà nel campo di Mauthausen il 18 maggio del 1944, due mesi dopo Manlio. Rimango colpito; nello stesso stabile, in una via così piccola, abitavano due uomini, andati incontro allo stesso destino, anche se in contesti diversi.
Alberto Pascucci
Passa qualche mese e un sabato mattina, allo stadio della Farnesina, dove vado ogni settimana a correre con mio figlio e gli amici dell’Associazione sportiva Rifondazione Podistica, noto sugli spalti una piccola folla, c’è un evento in corso. Gli altoparlanti dello stadio annunciano una conferenza stampa. Mi incuriosisco, non è qualcosa che accada tutti i giorni in un luogo dove si corre e si fa ginnastica.
Mi avvicino, è la presentazione di un libro su Manlio Gelsomini. L’autore, Valerio Piccioni, racconta, lì di fronte a me, una gran fetta della sua vita, la sua passione per lo sport, per l’atletica, per il rugby, per la corsa. Non riesco a crederci. Manlio era un medico, ma la sua grande passione era correre, e si allenava proprio allo stadio della Farnesina, sulle stesse piste dove sgambo io, ogni sabato. Compro il libro, mi siedo sui gradini di marmo, ne leggo alcune pagine, poi torno ad allenarmi.
Valerio Piccioni allo stadio della Farnesina
Tornato a casa riprendo la lettura. Il libro è pieno di riferimenti – naturalmente – a Via Venezia, a quel palazzo che guardo tutti i giorni dalla mia finestra. Un particolare mi colpisce, più di tutti. Manlio, con altri partigiani, già il 09 settembre 1943, il giorno dopo l’Armistizio, entra in azione, e attacca un covo di fascisti e nazisti a poche decine di metri da casa, l‘Albergo del Nord, in quella che oggi è Via Amendola, parallela di Via Giolitti.
Albergo del Nord… mi è familiare. Il lunedì mattina lo vado a cercare. Quando lo vedo realizzo: ci passo davanti tutti i giorni, da anni. Guardo i turisti giapponesi che escono dal portone e salgono su un pullman, quasi senza rallentare, un millepiedi con le valigie. Mi sposto sul marciapiede di fronte, allargo la visuale. Albergo del Nord, non ha cambiato nome… mi appoggio al muro, mi gira la testa. Mi emoziona pensare a Manlio e compagni che sparano alle finestre e tirano bombe a mano, li vedo correre e proteggersi dalle raffiche di mitra provenienti dall’interno.
Continuo a leggere. Un’altra coincidenza mi colpisce tantissimo. A guerra finita, Manlio sarà ricordato con una gara podistica ed una ciclistica, alla quale parteciperanno anche Coppi e Bartali. Entrambe le gare partiranno da Piazza Sempione, nel mio quartiere. Manlio è infatti legato, dalla comune prigionia nella cella numero 5 di Via Tasso, ad un ragazzo, appena diciottenne, Orlando Orlandi Posti, di Montesacro. Orlando è innamorato di Marcella, si vedono al Bar Bonelli, di proprietà della famiglia della ragazza, allora in Piazza Sempione. Orlando scrive un diario pieno di sogni, nel quale si proietta nel futuro, in fondo questo è il compito dei sogni. Si affeziona a Manlio, il medico. Quando tutto sarà finito, gli promette, studierà medicina e diventerà il suo assistente. Il compagno di cella lo asseconda, sì, sarà così. Moriranno insieme, il 24 marzo del 1944.
Orlando Orlandi Posti
Molte pagine parlano di Sparta, la madre di Manlio, vissuta nel ricordo del figlio, in Via Venezia. Leggo che anche lei, come Elvira, la ragazza di Manlio, conosce la galera, ma sopravvive al figlio, che sposta dal sacrario delle fosse Ardeatine al Pincetto vecchio, al Verano. Anche la tomba Tosi è al Pincetto Vecchio. Un giorno che mi trovo sul posto cerco la tomba di Manlio. La trovo subito, è poco distante.
E qui torniamo a Via Venezia. Decido di indagare su Giovannino, il fratello di mio nonno Enrico. Non so infatti con certezza in quale dei tre civici di Via Venezia ha abitato con la moglie Tina. Una mattina vado a parlare con Mario, il portiere del Palazzo Pascucci. E’ un uomo sui settant’anni, forse ricorda qualcosa. Mario è gentile, non si fa pregare, e conferma quanto scritto da Valerio Piccioni. Casa Gelsomini, dopo la morte di Sparta, è stata la sede di una casa editrice e ora è l’Albergo Italia, al terzo piano, lo stesso che al lavoro utilizziamo per i nostri ospiti.
Mario conosceva Giovannino e la moglie Tina. Se li ricorda molto bene, abitavano al numero 15, anche loro al terzo piano, proprio di fronte a Manlio e Sparta. Gli ritirava la pensione, gli faceva la spesa, gli consegnava la posta. Mi dice, con tono confidenziale, qualcosa che so già: alla morte di Giovanni i figli di Tina hanno subito venduto la casa, e poi aggiunge un particolare che invece non conosco: hanno portato la mamma a Vico Equense, a lei piaceva lì. Nella loro casa ora ci abita una coppia giovane, lavorano entrambi alla Banca d’Italia, mi indica il loro balcone.
Ripenso a quegli anni, 1943-44, a Manlio, Sparta, Alberto Pascucci, Giovannino Narici, la moglie Tina. Ci penso su, controllo le date… non posso dirlo con certezza; ma probabilmente si conoscevano tutti, si saranno incontrati, osservati dalle finestre, via Venezia è così piccola. Ognuno di loro in quegli anni ha fatto le sue scelte, si è schierato da una parte o dall’altra.
Roma conserva la memoria di quei giorni, nelle lapidi, nelle pietre di inciampo, nei libri che sull’argomento, meritoriamente, ancora vengono pensati e scritti.
20 settembre, ore 19.30, un giorno a metà fra l’estate e l’autunno, quando Roma ti fa innamorare.
Ieri sera tornavo a casa su un 60 express, strapieno. Percorrere Via Nomentana da Porta Pia a Piazza Sempione ti dà l’idea di come si può vivere Roma in modi diversi. I palazzi di fine Ottocento e dei primi del Novecento, ai due lati della strada, sono un piacere per lo sguardo. Oggi sono per lo più ambasciate, cliniche o istituti religiosi, alberghi. Villa Torlonia a destra, Villa Paganini di fronte, poi l’imponente Ambasciata Russa e, poco oltre, al civico 112, quel cancello nero, dal quale ogni mattina sbucano due musetti di cani curiosi. A seguire, una delle ambasciate più belle, quella dell’Afghanistan, per anni in stato di abbandono, poi restaurata, non a caso, dopo l’11 settembre.
E più avanti sulla destra, la dolcissima e isolata fontana dell’Acqua Marcia, di fronte alla Basilica di Sant’Agnese. Ricordo quando gli autisti dell’Atac fermavano il mezzo acceso, marce in folle e freno a mano tirato, e scendevano a bere; delle volte capitava che mettevano la testa sotto il getto, sfiniti dal caldo estivo in autobus che non conoscevano l’aria condizionata. Nessuno dei passeggeri ha mai protestato per quella sosta imprevista.
Più avanti, sulla sinistra, il parco di villa Leopardi e, subito dopo, all’angolo con Via Asmara, il palazzo che preferisco in assoluto, così asimmetrico che sembra un piroscafo. Infine la strozzatura della Batteria Nomentana. Sulla destra una caserma dell’esercito, orribile, e accanto gli svincoli della tangenziale, oltre i quali la strada compie un salto di livello. Di fronte alla caserma, il bar all’angolo. Quando passo di lì, penso sempre a Olli. Gli piaceva sedersi ai tavolini fuori, perché da quella posizione, diceva, si vedevano le montagne in lontananza.
Proprio in quest’area fu ritrovato l’Uomo di Sacco Pastore, una delle scoperte più importanti della paleontologia italiana. Non se ne parla più, rimane solo il nome di una strada a ricordarlo.
Poco oltre, sulla sinistra, una nuova caserma, stavolta della Finanza. E subito dopo lo storico Cinema Teatro Espero, ora un osceno Bingo. Segue l’ultimo tratto, prima di Piazza Sempione. Se guardi a destra, si dischiude un parco, una bella pineta oltre la quale si scorge il Ponte Nomentano, che attraversa il fiume Aniene. Qui sono passati tutti, Totila, Carlo Magno, una decina di Papi, Mazzini, Garibaldi, tutti.
Se guardi a sinistra, ti imbatti in uno dei quartieri più mal pensati che si possa immaginare, edilizia intensiva a ridosso dell’Aniene e, soprattutto, centinaia di automobili. Centinaia, parcheggiate ovunque. Uno spettacolo triste e ridicolo. A malapena, su uno degli ultimi palazzi prima del fiume, si intravede la targa in ricordo di Rino Gaetano. Di origine calabrese, romano di adozione, visse i suoi ultimi anni lì, prima di andare a sbattere addosso a un platano, proprio su Via Nomentana.
Fontana dell’Acqua Marcia, Via Nomentana
Ieri ho immaginato per un attimo di essere un mago e di far sparire in un puff tutte le auto. Puff. E poi di far apparire una pista ciclabile. E un tram elettrico, una sola linea, da Piazza Sempione a Porta Pia, invece di dieci linee di autobus a gasolio che si sovrappongono senza senso. E ancora aree pedonali per anziani e bambini. Quando mi sono svegliato, l’autobus era arrivato a Piazza Sempione.
Sbuffando si è fermato di fronte a un palazzo di edilizia popolare, all’angolo con Via Maiella. Su una facciata, di lato, si intravede una frase di GiuseppeMazzini, sul valore della famiglia come primo momento di educazione civica. Si legge male, coperta com’è dalle foglie di platano. Qui di fronte, c’era un altro cinema storico, l’Aniene, che non esiste più da anni. Uno spazio svuotato di cultura, una saracinesca sempre chiusa. Sull’altro lato del palazzo, troneggia una frase di Bertacchi, che conosco a memoria per quante volte l’ho letta: «Dalle case ben fatte e ben tenute esce, come da giovane sorgiva, un senso di freschezza e di salute». Che armonia.
Il 60 prosegue, lambisce Piazza Menenio Agrippa, dove il console romano riuscì a convincere i plebei a tornare a Roma con il famoso apologo del ventre e delle membra. Il primo sciopero della storia, cinquecento anni prima di Cristo. Una volta si chiamava Piazza Simon Bolivar, in onore del rivoluzionario venezuelano che, proprio in quella piazza, nell’agosto del 1805, aveva solennemente giurato di liberare il Sudamerica. Bolivar aveva scelto quel luogo proprio per riallacciarsi alla rivolta plebea e al suo valore simbolico.
Guardo la piazza scorrere via, col suo mercato. Dietro e intorno, si scorgono le case di Città Giardino, visione di un’edilizia illuminata, al punto di prevedere alloggi popolari degnissimi e belli, poco distanti; basta entrare in uno dei cortili interni delle case popolari di Via Maiella o di Viale Carnaro per rendersene conto. Città Giardino mi fa sempre pensare a Ennio Flaiano che, poco distante, in Via Montecristo, visse, scrisse e morì.
Poi il 60 imbocca la parte più nuova di Via Nomentana, incamminandosi verso i quartieri degli anni sessanta e successivi, il regno degli speculatori edilizi. A destra, dopo Via Sannazzaro, un orribile automercato. Ancora auto, a decine, nuove e usate. A sinistra, un bel palazzo, al civico 761, l’ultimo con un minimo di personalità. Sulla facciata campeggia una targa bianca che ci ricorda che Peppino de Filippo visse lì gli ultimi anni della sua vita. All’angolo con Via Ettore Romagnoli, guardo ostinatamente a destra e scorgo Casal de’ Pazzi, uno dei castelli medievali più imponenti e sconosciuti di Roma, circondato da un uliveto e alte mura di tufo. Proprio di fronte, la cittadella della RAI, ex casa di produzione cinematografica Dear. Ricordo un giorno che ci appostammo per vedere Ugo Tognazziuscire dai cancelli.
Il 60 prosegue ignaro, giungiamo a Piazza Talenti, una delle poche piazze di Roma intitolate a un palazzinaro. Siamo su una collinetta, da cui discendono Viale Jonio e Via Ugo Ojetti. Si racconta che negli anni cinquanta la gente del Tufello e di Val Melaina venisse quassù con panini, acqua e vino, per sfuggire alla callara estiva, perché qui soffiava il ponentino.
Mi guardo intorno e, di fronte allo Zio D’America, mega bar storico del quartiere, campeggia una fauna orribile, convinta di essere al centro di Roma. Sfoggiano i pochi soldi che hanno, cristallizzati in automobili parcheggiate in tripla fila, sorseggiando ‘ape’ da quattro soldi, simulando un’aria molto smart. Enormi vigilantes decerebrati fanno oscillare i loro corpaccioni avanti e indietro. Che orrore. Attraverso le strisce pedonali, alzando i tergicristalli delle auto che vi sono parcheggiate sopra e che intralciano il passo.
Mi nutro delle immagini di un’urbanistica armoniosa, pensata, immersa in un mondo magari sbagliato, ma dove si poteva pensare di incidere frasi di Mazzini e poesie sulle facciate decorate delle case. Un mondo dove un rivoluzionario venezuelano sceglieva uno spiazzo ben lontano da Roma – perché così era allora – per il suo valore simbolico.
Un senso di freschezza e di salute.
Questo ci manca; questo dovremmo lasciare ai nostri figli.